martedì 17 novembre 2020

Gangs of London (1a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 17/11/2020 Qui - Sky si rituffa (dopo ZeroZeroZero) nel crime drama più graffiante con questa serie, nuova produzione Sky Original creata dal maestro dell'action-fighting Gareth Evans già mente dietro il franchise The Raid, una serie che supera in violenza e qualità quella basata sul romanzo (ultimo) di Saviano. Infatti, echi di Gomorra - La Serie (in questo caso difficile superare), Il Padrino e di un certo cinema di movimento che vede in Evans ma anche in Taylor Sheridan i suoi principali interpreti moderni. Il tutto converge in una prima stagione che è un viaggio nel cuore più nero e multietnico di Londra. Una prima stagione che può fare la gioia di tutti gli appassionati di cinema action (quella mia l'ha fatta), con le sue nove ore e mezza di adrenalina pura e criminalità. Al netto di qualche scivolone narrativo e di qualche personaggio poco a fuoco infatti, Gangs of London è un prodotto da premiare, assolutamente consigliato se non si è particolarmente sensibili al sangue e alla violenza, se si apprezza un certo cinema d'azione che strizza l'occhio a Oriente. Girato con inventiva e grandi mezzi (tecnicamente è ineccepibile), Gangs of London tiene non a caso elevata la tensione quasi costantemente, tra infiltrati, coperture che saltano, amori pericolosi che nascono, bugie, parole date e ritirate, ovviamente tradimenti (la storia è articolata e non priva di sorprese). Gangs of London mostra dove si può arrivare nel nome del profitto, entrando nei meccanismi delle alleanze, durevoli e non. Si mescolano le razze, a ribadire come la nefandezza della violenza non ha confini geografici o continentali. In questo senso, e parlando quindi di "mostri", la serie evita di empatizzare e non salva nessuno, coinvolgendo il coinvolgibile e inventando un finale che farà da preludio a una seconda stagione. Probabilmente sarebbe stato meglio mettere il sigillo a una storia del genere, non lasciando prevalere l'ambiguità e la necessità di prolungare la vita del marchio con un'altra stagione. Come altre serie insegnano, non sempre si riesce a mantenere lo stesso livello di interesse. Il cast è scelto con cura e maestria e la serie in ogni caso, al netto di qualche difettuccio, è (al suo primo giro) una piccola perla. Voto: 7

Cercando Alaska (Miniserie)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 17/11/2020 Qui - Ideata da Josh Schwartz, già creatore di The O.C.Gossip Girl e Hart of Dixie, una miniserie drammatica di discreto impatto. La sceneggiatura è tratta dal romanzo omonimo di John Green, autore di romanzi di successo quali Tutta colpa delle stelle e Città di carta (divenuti poi film, sempre di successo). Otto episodi della durata di circa un'ora ciascuno, per raccontare la storia della scomparsa della eccentrica ed imprevedibile Alaska Young (la Kristine Froseth de La verità sul caso Harry Quebert) vissuta attraverso gli occhi del sensibile Miles Halter (Charlie Plummer). Location principale della storia è la singolare Culver Creek, una scuola prestigiosa davvero particolare per ragazzi dall'intelligenza vivace e singolare. Nonostante l'indicazione data dal titolo, è Miles il protagonista di Cercando Alaska che funge sia da osservatore principale della vicenda, sia da voce narrante. I personaggi sono interessanti e tutti dalle variegate personalità, ciascuno con caratteristiche ed inclinazioni peculiari. Miles è ossessionato dalle "ultime parole famose" proferite in punto di morte dai personaggi più disparati e ha fatto sue quelle dell'autore francese François Rabelais: "Me ne vado in cerca di un grande forse", l'incontro con Alaska lo lascerà folgorato ed incantato e Miles non potrà che farsi travolgere dalla personalità criptica e sofferente della giovane, lettrice appassionata con un profondo vuoto da colmare. Chip Martin (Denny Love), soprannominato dalla stessa Alaska "Il Colonnello" e Takumi Hikohito (Jay Lee) a completare il quartetto di ragazzi che si oppone alla spocchia e all'arroganza del gruppo dei "settimana breve", studenti eredi di famiglie facoltose, destinati a università prestigiose e soprannominati così perché sono soliti tornare nelle proprie case da sogno durante il fine settimana. Ogni episodio si conclude con l'indicazione di quanto manca alla scomparsa di Alaska, evento clou della serie che attrae lo spettatore verso la soluzione del mistero annunciato fin dalla premessa narrata dalla voce di Miles. Cercando Alaska beneficia dell'arte creativa del romanziere statunitense, sempre in grado di attrarre il pubblico, di emozionarlo e di arricchirne le conoscenze. Sarà fin troppo facile affezionarsi alla discrezione di Takumi, all'umiltà del Colonnello, alla tenerezza di Miles, alla complessità di Alaska e persino alla splendida storia del professore di religione, il dott. Hyde (Ron Cephas Jones). Ma la serie, per quanto interessante e dal finale sorprendente e significativo, non mantiene lo stesso livello di pathos e qualità narrativa durante tutti gli episodi, alcuni dei quali risultano sostanzialmente riempitivi e caratterizzati da momenti che non invitano particolarmente a tenere alta l'attenzione. Cercando Alaska, però, ha un significato profondo e indaga nei sentimenti, nei valori e nelle fragilità umane rappresentando l'importanza dell'amicizia e dell'amore. Certo, non a livello di film quali L'Attimo Fuggente o di serie quali Euphoria, ma pur sempre valida negli intenti. Voto: 6,5

What We Do in the Shadows (1a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 17/11/2020 Qui - Di solito non guardo le serie tv tratte dai film (anche perché poche volte si è rivelato una buona idea realizzare) ma siccome Vita da vampiro mi era piaciuto molto ed è lungo solo dieci episodi (il che è un pregio, l'eccessiva lunghezza delle serie porta solo annacquamenti) ho deciso di visionarla. Devo dire che mi ha pienamente soddisfatto soprattutto perché riprende benissimo lo spirito dell'originale, dal falso documentario ai personaggi strambi. Personaggi azzeccati e divertentissimi con bravi attori, all'inizio vedendo una vampira donna al posto di uno dei vampiri del film (anche se i personaggi non sono gli stessi ma bensì un frullato del meglio di essi) ho storto il naso per poi ricredermi in un battito di ciglio visto che è fenomenale. Una serie che ci si beve tutta d'un fiato anche per via della brevissima durata degli episodi. Nonostante Taika Waititi, tra blockbuster della Marvel e premi Oscar (meritato quello a Jojo Rabbit), sia diventato un Hollywoodiano, riesce a produrre ed a dirigere insieme a Jemaine Clement (sono anche presenti in un cameo insieme ad altri attori famosi) questa piccola-grande serie (perfino migliore del film in origine) dove si ride dall'inizio alla fine, dove le situazioni paradossali, horror-comiche e le gag inaspettate non danno mai un attimo di tregua. Una di quelle cose che ti tirano su il morale quando sei depresso. Insomma una genialata della comicità che a parer mio porta una ventata di fresco e di spumeggiante nel panorama televisivo, dove anche gli effetti speciali ed il lato tecnico sono ottimamente curati. Con la conclusione della prima stagione è quasi impossibile separarsi da loro, ma per fortuna c'è già una seconda stagione ad attendermi. Voto: 7+

Yellowstone (1a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 17/11/2020 Qui - Uscita abbastanza in sordina, senza grandi clamori pubblicitari e con giudizi altalenanti della critica, è una delle serie personalmente più sorprendenti degli ultimi mesi. E anche vero che io ho una particolare ammirazione per i lavori sceneggiati e/o diretti da Taylor Sheridan. Ho apprezzato SicarioHell or High WaterI segreti di Wind RiverSoldado e, ovviamente, Yellowstone. In ogni caso, un viaggio nei paesaggi del Nord Ovest americano, un vero e proprio western contemporaneo che ripropone in chiave attuale il mito della frontiera e della ruralità. Yellowstone è infatti una narrazione, in chiave seriale, della tradizione americana più intima e profonda: uomini a cavallo che proteggono la propria terra, lo scontro tra la natura e la civiltà, un western dei nostri giorni (lo stile, le tematiche, la caratterizzazione dei personaggi creano un bel mix tra passato e presente). Il protagonista è John Dutton (interpretato da un grande Kevin Costner), ricco proprietario del più grande ranch degli Usa, lo Yellowstone appunto. L'intera zona però è diventata obiettivo dei costruttori edili, viene rivendicata al tempo stesso dalla vicina comunità di indiani ed è troppo vicina al Parco Nazionale d'America. L'uomo (rigido ed irreprensibile) si trova così costretto a difendere il suo regno, con ogni mezzo possibile. E dopo i primi screzi, la vicenda inizia a trasformarsi in una vera e propria guerra, che coinvolgerà anche i figli di John. Taylor Sheridan ripropone lo schema narrativo/tematico che gli ha dato tanto successo in questi anni, e fa nuovamente centro. Nello stile di Sheridan viene toccato anche il grande tema della vita di frontiera, della durezza di essa e della natura che la circonda. A proposito di ciò, la natura in Yellowstone è già addomesticata, i cowboy non hanno nuovi spazi da conquistare, ma terreni da difendere. In questa narrazione sono gli indiani che mirano all'espansione, a riprendersi ciò che era loro. La modernità sta letteralmente invadendo la tradizione: gli alberghi inghiottono i ranch (assurdo ma vero). Della prova attoriale di Costner si è già detto ma non va assolutamente dimenticata anche quella di Kelly Reilly come Beth Dutton, problematica figlia di John ma donna dal carattere d'acciaio e che "distrugge persone per lavoro". Nel complesso tutti i personaggi funzionano benissimo, scritti bene e recitati meglio con tutte le sfumature del caso dipendenti dal non essere nessuno di loro un buono o un cattivo semplice. E' difficile schierarsi totalmente con qualcuno tanto quanto è difficile non aver pietà per loro. Bella la fotografia, aiutata parecchio dai paesaggi maestosi e bellissimi. Discreta la colonna sonora ovviamente quasi tutta influenzata dal genere country. Yellowstone quindi, un grande romanzo familiare, spesso e volentieri tragedia classica, ambientato in un contesto, quello della frontiera americana, che lo esalta ancora di più (non ci sono vincitori o vinti, ci sono solo uomini e donne che lottano per la sopravvivenza) decisamente promossa. Voto: 7

The Affair (5a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 17/11/2020 Qui - Poteva tranquillamente finire con la quarta stagione The Affair, che nel suo essere non pienamente soddisfacente, risultava alquanto piena, intensa, emozionante e sorprendente tale da essere capace (quasi) di rinascere dalle proprie ceneri, compreso quel finale aperto, (che a questo punto) era perfetto. Poi Showtime ha ordinato una quinta, Ruth Wilson e Joshua Jackson se ne sono andati e ha dovuto reinventarsi ancora una volta, cercando di non tradire se stessa come avevano fatto Noah e Alison. Un po' ci riesce, un po' non si capisce anche la parentesi futuristica e ambientalista dove voglia andare a parare (il tema risulta debole sia come idea che come realizzazione, e l'Anna Paquin di Trick 'r Treat ne esce "spogliata" del suo talento), ed alla fine ne viene fuori un mezzo pasticcio, risollevato, ma solo in parte, dagli spunti narrativi e di riflessione che sempre hanno accompagnato la serie. Il difetto maggiore di questa quinta ed ultima stagione che chiude (su due piani temporali diversi, uno ambientato nel presente e uno ambientato in futuro più o meno prossimo) le sue storie di amore e tradimento? L'idea dei diversi punti di vista, punto di forza nelle prime stagioni, si è trasformato in un modo per raccontare le storie di altri personaggi, introdotti nel tempo e fondamentalmente inutili (soprattutto in quest'ultimo ciclo di episodi, di alcuni si poteva fare a meno). Voto: 5

Big Little Lies (1a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 17/11/2020 Qui - Nella cornice californiana di Monterey, i destini di tre donne si incontrano. La serie (tratta da un romanzo di Liane Moriarty) inizia con un comunicato stampa della polizia dove si accenna ad un cadavere ritrovato. Le protagoniste sembrano condurre delle vite invidiabili: belle famiglie che vivono in case mozzafiato sull'oceano, ma a mano a mano che gli episodi scorrono riusciamo ad intravedere in ogni nucleo familiare delle problematiche attualissime: difficili rapporti madre figlia, separazioni, tradimenti, giochi di potere ed anche violenza sulle donne. Anche se il tutto è servito su un piatto patinato di vita californiana i dialoghi e le situazioni sono veri, accattivanti, e in alcuni casi scioccanti perché descrivono magistralmente bene i vari aspetti del malessere dei nostri tempi. Infatti, un pregio di questa prima stagione (che ne anticipa una seconda) è nel riuscire a mettere sullo stesso piano tutte le problematiche che si ritrovano ad affrontare le nostre protagoniste. In questo modo lo spettatore riesce a coinvolgersi appieno nella storia empatizzando con i vari personaggi. Con sapienti flashback ed una colonna sonora azzeccatissima, il (bravo) regista (Jean-Marc Vallée, regista anche di Sharp Objects, che porta nella miniserie, divenuta a seguito dello straordinario successo riscontrato da critica e pubblico una serie, la sua inconfondibile impronta, brava la HBO ad affidargli la regia di tutte le puntate) ci accompagna al punto di avere un presagio. Sarà solo nel finale che tutti i pezzi del puzzle si incastreranno facendoci capire la terribile realtà. C'è comunque da dire che l'intera trama è eccessivamente banale e che non tutto è perfetto (nella tecnica quanto nella disamina), ma Big Little Lies - Piccole grandi bugie è senza alcun dubbio una serie di alto livello in grado di trattare temi delicati con molta sensibilità. Inoltre la presenza di un cast d'eccezione (nomi importanti del mondo del cinema come i premi Oscar Reese Witherspoon e Nicole Kidman, ma anche da altri celebri attori quali Shailene WoodleyAlexander SkarsgårdLaura Dern e Zoë Kravitz) è un ulteriore conferma dell'elevata qualità di un progetto (pienamente lo si vedrà poi) riuscito. Voto: 7,5