martedì 24 dicembre 2019

Bellezze cinematografiche/serialtelevisive edizione 2019

Classifiche pubblicate su Pietro Saba World il 21/12/2019 Qui - Uno dei momenti più attesi dal mio pubblico maschile, e femminile chi lo sa (sono aperto a tutti), è finalmente giunto. E' il momento infatti della mia ode alla bellezza ed alla sensualità. Il Saba Beauty Awards è un premio difatti, anche quest'anno in un'unica versione (sia cinematografica che serialtelevisiva), che appunto premia le più belle donne apparse in tutte le pellicole e serie tv viste durante l'anno. In tal senso, poiché è ovvio che la scelta può essere stata "condizionata" dalle scene particolarmente hot di alcune di queste protagoniste, raccomando ai lettori che se le foto di seni nudi o altro vi infastidiscono e le trovate disdicevoli, di ignorare questo post. Agli altri invece, che apprezzeranno il suddetto post, di non essere volgari e di non esagerare nei commenti. A tutti comunque calma e sangue freddo. Ma prima di cominciare vediamo chi è la madrina di quest'anno, l'anno scorso fu Margot Kidder (la Lois Lane di Superman, qui), oggi ed ora, se non l'avete ancora riconosciuta, è Doris Day, la fidanzata d'America, scomparsa a maggio scorso all'età di 97 anni. Se non sapete chi è (cosa comunque plausibile visto che attiva come attrice dagli anni quaranta ai sessanta) vi invito a rivolgervi a Google. Detto ciò, torniamo a noi, e vediamo chi quest'anno non ci sarà, anche se ne avrebbe avuto tutto il diritto. Sì perché per evitare di vedere sempre le stesse protagoniste, devo rinunciare a qualcuna. E quest'anno in ambito cinematografico devo rinunciare alla bellissima Jennifer Lawrence di Red Sparrow, alla deliziosa Blake Lively di Chiudi gli occhi, alla graziosa Katherine Langford di Tuo, Simon, alla sensualissima Emily Ratajkowski di Come ti divento bella!, alla dolce coppia Shailene Woodley/Brie Larson di The Spectacular Now, alla "Bella" Thorne di Sei ancora qui ed alla selvaggia Miriam Leone di Metti la nonna in freezer, mentre in ambito televisivo al fantastico trio di giovani donzelle Lili Reinhart, Camila Mendes e Madelaine Petsch della seconda stagione di Riverdale.

Le migliori attrici e i migliori attori, più le sigle e colonne sonore, delle serie viste nel 2019

Classifiche pubblicate su Pietro Saba World il 14/12/2019 Qui - Quando si giudica un film oppure una serie sono tanti i fattori da tenere in considerazione, innanzitutto la narrazione, la regia e quindi la sceneggiatura, ma anche e soprattutto le interpretazioni e le partiture musicali complete. E sono proprio queste (come le scorse volte, qui i premi del 2018) ad essere prese in esame nella classifica che chiude lo spazio serial di quest'anno. I migliori attori/attrici e le migliori sigle più le colonne sonore sono infatti gli ultimi premi ad essere assegnati. Ed ecco perciò a chi sono stati virtualmente consegnati.

I MIGLIORI ATTORI
7. Ex aequo per un sempre efficace Jonas Nay, anche nella seconda stagione della serie Deutschland, per la solida coppia Paul Giamatti/Damian Lewis di Billions, quarta stagione e quarta nomination per entrambi, per l'agguerrito cast maschile dell'ultima stagione de Il trono di Spade
e per un/il luciferino Cody Fern dell'ottava stagione di AHS

La Top 16 delle serie viste nel 2019

Classifica pubblicata su Pietro Saba World il 13/12/2019 Qui - Sapete già (o almeno spero se avete letto il post di chiusura anno bloggeristico 2019) che nel corso dell'anno ho visto 44 serie per un totale di 46 stagioni ed avete già letto delle peggiori serie (è stato ieri), ma siete già a conoscenza di tutte le migliori e la migliore serie (sempre secondo il mio modesto parere) di quest'anno? Alcuni probabilmente sì, agli altri eccovi il mio resoconto, delle serie che non solo hanno raggiunto la sufficienza, ma l'hanno superata ampiamente, meritandosi ovviamente un posto in questa classifica, ridottasi ulteriormente, questa volta siamo a 16 (20 in precedenza, qui), e l'occasione di essere ri-consigliata (dopo esser già stata al tempo delle loro recensioni, recensioni che trovate cliccando sull'immagine) a molti.

16. Non perfetta, anzi, non assolutamente migliore della prima, anzi, ma una seconda stagione tuttavia utile, coraggiosa e che si lascia vedere. (7/10)
15. Sorprendentemente brillante questa serie di Maccio Capatonda. (7/10)

Le peggiori serie tv viste dell'anno (2019)

Classifica pubblicata su Pietro Saba World il 12/12/2019 Qui - In attesa di scoprire le migliori proposte (secondo il mio modesto parere) seriali dell'anno in corso (ma non solo), era più che ovvio che prima toccasse alle peggiori, alle serie tv che non avessero raggiunto la sufficienza. Non l'hanno raggiunta né le prime otto posizioni né le mie personali delusioni, che come sempre aprono questa mia classifica. Una classifica in cui in tal senso dovrei ovviamente rimarcare il fatto che tutte queste serie prese in esame, sconsigliabili non sono del tutto, dopotutto quello che non è piaciuto a me può piacere ad altri (dipende sempre dai gusti e tanti fattori), ma sono comunque tutte da prendere con le pinze (a parte la prima classificata, anche quest'anno evitabile, ci fu infatti una medesima situazione l'anno scorso, qui). E quindi detto ciò, buona presa visura.

DELUSIONI
Deludono nuovamente, seppur con le dovute differenze in ambito narrativo e gestionale, le nuove stagioni di C'era una volta, Arrow e Ballers, mentre un po' a sorpresa ne rientrano serie che nelle stagioni precedenti non avevano fatto male, parlo di Vikings e I delitti del Barlume, al contrario Das Boot, quest'anno all'esordio, delude non partendo da una base ben avviata, giacché sbaglia in alcuni punti, risultando così un mezzo flop. In ogni caso tutte e sei (a parte lo show abc che ha chiuso i battenti) sono serie che continuerò a seguire, sperando che almeno aggiustino un po' il tiro.

mercoledì 27 novembre 2019

The Generi (1a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/11/2019 Qui - Dopo la parentesi in chiaroscuro (più che scuro) sul grande schermo, con il mediocre Italiano Medio e il dimenticabile Omicidio all'italianaMaccio Capatonda torna al suo primo amore, facendo quello in cui riesce meglio. Qui infatti ritroviamo, giacché la trama, praticamente un viaggio onirico attraversi i generi più famosi dell'intrattenimento, visti tramite gli occhi del protagonista che deve superare le sue fobie per riuscire a tornare a casa, non è altro che un pretesto per dare libero sfogo al suo estro, il suo modo unico di far parodia e di prendere in giro cinema e televisione. E lo fa con una serie, appunto umoristica e parodistica (che sfrutta stereotipi narrativi e stratagemmi diegetici con una struttura che strizza l'occhio ai videogiochi), davvero esilarante. Con una serie (sicuramente grazie a Sky) fatta benissimo dal punto di vista produttivo e realizzativo, con tantissime comparse (c'è addirittura Alvaro Vitali, nel genere facile intuire), location suggestive e regia, montaggio e fotografia di alto profilo. Così The Generi (che in ogni puntata esplora un genere cinematografico diverso: Western, horror, fantasy, commedia sexy all'italiana, supereroistico, quiz, noir) ricalca pedissequamente lo stile di ogni genere affrontato (Dark per i supereroi, Notturna/Foresta per l'horror, bianca e colorata per la commedia sexy, e così via). In questo senso è senza dubbio il progetto più sofisticato a livello tecnico di Marcello Macchia. Ha osservato negli anni programmi, telegiornali, reality, trailer e serie, cogliendone pregi e difetti con precisione chirurgica. In ogni sua parodia ciò che balza immediatamente all'occhio è proprio la conoscenza dei cliché e delle debolezze della materia originale. Il suo fine è esasperarne i difetti, sconfessandone l'essenza stessa con il suo humor dissacrante. Già nei primissimi trailer si intuiva la capacità di cogliere il buffo e il ridondante del genere. Macchia ne riusciva a ricalcare atmosfere e impalcature, inserendoli in un nuovo contesto in salsa nonsense. Ancora oggi, a distanza di più di dieci anni, i suoi trailer surreali e demenziali funzionano a meraviglia. In un'era in cui l'unico mezzo per emergere era ancora il tubo catodico e in cui Youtube ancora non la faceva da padrone, Maccio ha fatto scuola agli attuali youtuber anticipandone linguaggio e format.

Knightfall (2a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/11/2019 Qui - Dopo la visione della seconda stagione di Knightfall, purtroppo si devono confermare tutte le perplessità e i dubbi suscitati dalla prima stagione (qui la recensione). Pur rimanendo una piacevole e scorrevole fiction di ambientazione medievale (riuscendo a coniugare scene di battaglia adrenaliniche ed emozionanti con sequenze di dialogo ben strutturate, alimentando una trama precisamente intessuta, fatta di intrighi e giochi di potere), la serie di History Channel (che riprende esattamente dal finale della precedente, che vedrà due fazioni ben schierate: da una parte i Templari e dall'altra re Filippo IV con i suoi figli) dimostra di essere stata realizzata all'insegna della massima inverosimiglianza storica, nonostante il tentativo di incanalare la vicenda in un serrato alternarsi di battaglie, duelli, agguati e assedi che accompagnano il doloroso percorso di redenzione del Templare Landry, degradato dall'Ordine per via dei suoi numerosi peccati. Tutte le storyline alternative vengono sbrigativamente accantonate, a cominciare dal mistero del Santo Graal che si è visto nella prima stagione, infrangersi contro un albero per mano di Landry, per concentrarsi sulla rinascita e vendetta del protagonista nei confronti di un Re Filippo sempre più odioso e furente. Il famoso processo ai Templari ci viene presentato in maniera puerile e frettolosa (nella realtà il processo durerà 7 anni), tra roghi e fantasiose torture pseudo-medievali. Nel voler favorire ad ogni costo una narrazione scorrevole e semplicistica, si rinuncia a qualsiasi forma di vero pathos sulla tragica fine dei cavalieri Templari. E anche quegli aspetti più misteriosi ed esoterici che fanno parte della leggenda templare vengono trascurati o banalizzati in Knightfall. Privati del loro nemico storico, in Knightfall vediamo i Templari, con Landry in testa, battersi con i nemici più improbabili: dopo i mercenari russi (e ninja) entrano in scena i fantomatici Luciferiani, una sorta di setta satanica che si nasconde nelle foreste circostanti. Quindi, dal punto di vista storico non ci siamo.

The Passage (1a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/11/2019 Qui - Guardando la prima stagione della serie Fox The Passage, si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un prodotto che strizza un po' l'occhio a TWD e un po' alla serie targata Guillermo del Toro The Strain. Un virus proveniente dalla Bolivia che trasforma le persone colpite in vampiri succhiasangue. Vampiri che possono comunicare sia tra loro che con le persone non infette. A combattere questa minaccia un team di scienziati che in questo virus sperava di trovare una cura definitiva a tutte le malattie. A guidarli sono il Dottor Jonas Lear (Henry Ian Cusick di Lost) e la dottoressa Nichole Sykes (Caroline Chikezie). Legati a questa vicenda sono anche i due protagonisti della serie, ovvero l'agente federale Brad Wolgast (Mark-Paul Gosselaar) e la giovanissima Amy Bellafonte (Saniyya Sidney). Il team di scienziati infatti dopo alcuni esperimenti su condannati a morte che per sfuggire all'esecuzione hanno deciso di fare da cavie per l'esperimento chiamato Noah iniettandosi il virus per studiarne gli effetti, ha trovato in Amy la possibile soluzione finale. Una persona molto giovane difatti potrebbe controllare l'effetto del virus in modo da limitarne/annullarne gli effetti collaterali. Saranno però alcuni effetti non considerati e la particolare abilità di coloro già infettati a rimettere tutto in discussione e a portare con sé gravi conseguenze per tutti. Virus, trasformazioni, mutazioni, cure e succhiasangue. Ecco gli ingredienti principali di The Passage. Tipici ingredienti, che vanno dall'horror al fantasy e al thriller, anche troppo tipici, perché anche se in questa prima stagione è però forte il fattore umano, quello dei legami tra i vari personaggi, in particolar modo quello che lega l'orfana Amy all'agente Wolgast, sconvolto da un passato familiare molto triste, quello tra Amy e uno degli infetti, lo scienziato Tim Fanning, personaggio chiave di questa stagione, e ultimo, ma non per importanza quello tra il collega di Wolgast, Clark Richards (Vincent Piazza) e un'altra cavia, la bionda sexy Shauna Babcock (Brianne Howey), tutto è stato già visto. E come se non bastasse ciò, a farla da padrone in questa serie dove almeno fortunatamente i vampiri non brillano come in Twilight (hanno la pelle liscia quasi fosse una guaina e somigliano un po' a quelle salamandre strane che si trovano nelle foreste pluviali, il loro vomitare sangue richiama invece altri vampiri già visti in televisione) è la prevedibilità, quest'ultima in aggiunta ad una dose massiccia di stupidità.

The Handmaid's Tale (3a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 19/11/2019 Qui
Tema e genere: Terza stagione per la distopica (drammatica) serie di produzione Hulu tratta dal romanzo Il Racconto dell'Ancella di Margaret Atwood.
Trama: June ha messo al sicuro sua figlia Nichole in Canada insieme all'amica Emily, ma è rimasta a Gilead per cercare di salvare anche la sua prima figlia, Hannah. La situazione a casa Waterford prevedibilmente precipita e June viene affidata a un nuovo comandante, Joseph Lawrence, lo stesso che aveva avuto in affidamento Emily. Lawrence è stato un importante ideologo del regime e tutt'ora riveste una posizione di grande potere, anche se in realtà nutre grandi sensi di colpa. La sua prima preoccupazione però non è la propria coscienza, bensì la salute della moglie, sull'orlo della follia. Nel mentre Serena Waterford inizia a tessere il proprio piano per riavvicinarsi a Nichole.
Recensione: La terza stagione di The Handmaid's Tale si riconferma come uno show di grande effetto e di grande impatto, sia sul piano contenutistico sia sul piano estetico (Gilead è ancora lì, sui piccoli schermi, e da lontano ci osserva, ci minaccia e ci inquieta). Questa stagione infatti (disponibile su TimVision), è il perfetto terzo atto di un racconto la cui evoluzione rispecchia sempre di più i nostri tempi. La prima stagione dell'acclamata serie Hulu aveva colpito per il mondo distopico che era riuscita a portare in scena: dal libro di Margaret Atwood (che a quanto pare starebbe lavorando ad un sequel letterario) alla serie tv, The Handmaid's Tale aveva scosso l'opinione pubblica, acceso dibattiti e fatto pensare che non sarebbe stato possibile essere ancora più cupi. La smentita è arrivata con la seconda stagione, sicuramente non perfetta ma non una passeggiata dal punto di vista emotivo, che è servita a porre le basi per il terzo atto rappresentato, appunto, dalla terza stagione. Se nella seconda stagione la protagonista, ormai chiamata definitivamente con il suo nome di battesimo e non da Ancella, ha affrontato una gravidanza, la rassegnazione e quindi il distacco dalla figlia appena nata, nella terza deciderà di alzare la testa (non è un caso che il suo sguardo ora sia decisamente ben differente da quello che sì è conosciuto). The Handmaid's Tale 3 è difatti la stagione della rivolta, tanto auspicata nelle prime due stagioni ma vista ancora da lontano. Ora, invece, è arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti: la prima a pensarla così è proprio la protagonista, che sceglie di non scappare in Canada e salvarsi, ma di affidare la figlia ad Emily (Alexis Bledel) e di restare a Gilead per combattere il nemico dall'interno. Ad aiutarla, oltre ad alcune Ancelle ribelli, anche un insolito alleato, il Comandante Joseph Lawrence (Bradley Whitford), ed alcune Marte.

Euphoria (1a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 12/11/2019 Qui
Tema e genere: Scritta e diretta da Sam Levinson e prodotta dal rapper Drake, Euphoria è l'adattamento dell'omonima versione israeliana andata in onda tra il 2012 e il 2013. Siamo di fronte a un teen drama spregiudicato e a tinte forti pensato per un pubblico adulto, che tocca diverse tematiche complesse. C'è il tema della dipendenza, della sessualità, ci sono le dinamiche genitori/figli, la depressione e la malattia mentale.
Trama: Senza entrare troppo nel dettaglio (per evitare di fare spoiler, anche se poi è facile intuire alcune storie), Euphoria racconta semplicemente le vicende di un gruppo di liceali alle prime armi con droghe, sesso, identità, traumi, amore e amicizia.
Recensione: Primo teen drama di HBO, la serie Euphoria racconta le nuove generazioni in maniera schietta, a volte anche cruda ed estrema, con immagini esplicite dal contenuto sessuale o violento che non la rendono adatta, a dispetto del genere, agli adolescenti o giù di lì. Euphoria (trasmessa in Italia per intero da Sky Box e a puntate su Sky Atlantic da settembre scorso) parla infatti (senza filtri) di droghe, relazioni tossiche, rapporti familiari complicati, depressione e sessualità senza edulcorazioni. Nonostante i personaggi abbiano tra i sedici e i diciotto anni non ci sono prime volte, o sono rare, perché gli adolescenti protagonisti hanno già provato quasi tutto. Ogni puntata si apre con la presentazione di uno di loro, offrendo una panoramica dell'infanzia e della famiglia. Un quadro che evidenzia spesso un trauma in grado di spiegare, almeno in parte, perché sono diventati quelli che sono. Tutto viene filtrato dalle parole di Rue, narratrice e protagonista principale, interpretata dall'attrice Zendaya, nota finora per aver preso parte a prodotti di tutt'altro genere, a cominciare dagli show targati Disney fino all'approdo al cinema con Spider-Man - Homecoming e poi con il musical The Greatest Showman. La serie comincia proprio con la sua storia: la giovane soffre di attacchi di panico sin da bambina e ha cominciato presto a fare uso di droghe. Tale situazione si è aggravata al punto da costringerla a trascorrere l'estate in un rehab dopo essere entrata in coma per un'overdose. Le dipendenze che Euphoria affronta però non sono soltanto quelle da sostanze stupefacenti, riguardano anche la sfera emotiva, legate alla voglia di primeggiare, non deludere le aspettative e al desiderio, che si rivela illusione, di avere il controllo sugli altri e su se stessi. E però non seguiamo solo le vicende di Rue e della sua nuova "amica" Jules (una giovane transgender appena trasferitosi). Euphoria si sofferma puntata dopo puntata sulle storie degli altri protagonisti: facciamo così la conoscenza di Nate e di suo padre Cal, di Maddy, di Cassie e di Kat. I loro percorsi e le loro storie si intrecciano con quella di Jules e Rue. Festa dopo festa, dramma dopo dramma, vediamo l'amicizia tra le due crescere e le protagoniste cambiare, evolversi, avvicinarsi e allontanarsi con gli alti e bassi tipici dell'adolescenza. Parallelamente partecipiamo alle storie degli altri protagonisti, in un'altalena di emozioni che culmina in un finale aperto che getta le basi per la seconda stagione. Perché Rue è sì la figura centrale e a lei viene riservato un po' più di spazio, ma riusciamo a conoscere tutti i protagonisti, tramite un approfondimento psicologico importante (gli adulti sono nel migliore dei casi inutili, nel peggiore dannose e pericolose per i ragazzi che appaiono fragili e soli), e tramite problematiche diverse. Appunto, ciascuno di loro, nella propria storyline, porta avanti una tematica, una problematica specifica. È il modo migliore per perseguire l'intento di tracciare il quadro (certo, non universale) di una generazione (anche se poi non si sa quanto può essere davvero verosimile tutto quello che si vede).

Stranger Things (3a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 06/11/2019 Qui
Tema e genere: Terza stagione della serie fantascientifica creata dai fratelli Duffer e uno dei prodotti di punta di Netflix.
Trama: Ci ritroviamo a Hawkins nel 1985. Qui, poco prima dei festeggiamenti per il 4 luglio, c'è fervore: il mall Starcourt ha stravolto le dinamiche cittadine, e l'assetto sociale e commerciale muta in una forma definitiva. I ragazzi che hanno salvato per ben due volte il mondo dalla minaccia del Sottosopra si ritrovano però ad affrontare un nuovo pericolo.
Recensione: Dopo una prima stagione andata al di sopra delle più rosee aspettative (qui la recensione) e un secondo ciclo di episodio leggermente deludente (colpa soprattutto di una puntata proprio evitabile, qui comunque la recensione), Stranger Things era chiamata a una prova di definitiva maturità, che dimostrasse la capacità dello show di reggersi sulle proprie gambe e di andare oltre al marcato citazionismo e alla genuina e nostalgica passione per le atmosfere anni '80. Al termine degli 8 episodi che compongono la terza stagione, si può affermare che i Duffer Brothers hanno superato brillantemente questa prova, riuscendo nella non facile impresa di riprendere in mano le redini della propria creatura e di assecondarla in maniera limpida e naturale, sfruttando il rapido cambiamento fisionomico e caratteriale dei giovanissimi protagonisti per una profonda e a tratti struggente riflessione sulle gioie e sui dolori dell'adolescenza. La provvidenziale pausa di quasi due anni dal precedente ciclo di episodi ha dato ai Duffer il tempo necessario per rimettere al centro di tutto i propri personaggi e la loro evoluzione, senza però rinunciare alla componente più prettamente orrorifica. Il risultato è una serie che, a un passo dall'implosione, ritrova tutta la propria vitalità, riuscendo a fare nuovamente innamorare il pubblico di Eleven e soci e a unire spettatori di diverse età sotto la bandiera comune della nostalgia anni '80, sfruttata con molteplici citazioni e omaggi al periodo, quasi sempre funzionali al racconto. La terza stagione di Stranger Things ci mostra i ragazzi di Hawkins alle prese con i cambiamenti dovuti alla loro crescita e ai primi amori. Eleven e Mike fanno ormai coppia fissa, scambiandosi dozzine di goffi baci a pochi metri di distanza dal sempre più severo Hopper, Dustin torna dalle vacanze rinvigorito dalla sua nuova ragazza Suzie, che non l'ha seguito ma che lui assicura essere più sexy di Phoebe Cates, mentre Nancy e Jonathan e Lucas e Max rinsaldano i loro rapporti. Con Hawkins scossa dall'apertura di un nuovo modernissimo centro commerciale, presso cui Steve trova un lavoretto come gelataio, il Sottosopra incrocia nuovamente le strade dei protagonisti, a causa di alcuni misteriosi esperimenti condotti in una segretissima base russa. La minaccia soprannaturale è pressoché inalterata rispetto a quella che ha contraddistinto le prime due stagioni della serie, con l'eccezione di un gustoso retrogusto da L'invasione degli ultracorpi (o La cosa, citata esplicitamente dai protagonisti con un dotto paragone fra l'originale e il remake), che porta i personaggi a sospettare di chi li circonda, tutti possibili ospiti del temibile Mind Flayer. I nemici più minacciosi del periodo, ovvero i russi, sono invece volutamente rappresentati con gli stessi stereotipi che li caratterizzavano nel cinema statunitense degli anni '80, da Alba rossa in giù: responsabili dei più disparati complotti governativi, privi di qualsiasi tentennamento o sentimento e talmente malvagi da diventare quasi ridicoli. Questi aspetti avrebbero potuto trasformare una qualsiasi serie contemporanea in un boomerang per i propri creatori, ma non la creatura dei fratelli Duffer, in particolare in questa sua terza ispirata stagione.

Strike Back (7a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 28/10/2019 Qui - L'avevo anticipato al tempo della recensione di Warrior che Strike Back non fosse ancora morto, ma adesso lo sarà, perché la Sezione 20 chiude nuovamente i battenti. Dopo il riavvio con un nuovo cast avvenuto l'anno scorso (qui la recensione), la serie action della Cinemax lascia infatti lo schermo una seconda volta, e questa volta per sempre. E ci lascia con una settima (ma solo se contiamo una prima stagione di altra produzione) ed ultima stagione, intitolata per non far confusione Strike Back: Revolution, andata in onda su Sky Atlantic a primavera scorsa, decisamente scoppiettante. Una stagione che non cambia il leit-motiv, che rimane di gran qualità dal punto di vista tecnico, con acrobazie folli e sequenze d'azione davvero impressionanti, che riprende con la squadra della sezione 20 (solo Alin Sumarwata ossia Gracie Novin c'è ancora) capitanata per la seconda volta dai sergenti Wyatt e McAllister (Daniel MacPherson e Warren Brown), impegnati nelle indagini sull'abbattimento di un terrorista russo nel mare del sud della Cina e della misteriosa sparizione della bomba nucleare su cui egli stava lavorando. Ai due agenti si aggiungeranno anche il colonnello Alexander Coltrane, interpretato da Jamie Bamber, come nuovo comandante della sezione 20 e l'agente russo Katrina Zarkova con il volto di Yasemin Kay Allen. Ai tutti si aggiungerà un nuovo tecnico informatico, e soprattutto un nuovo villain. E insieme daranno vita ad una stagione parecchio movimentata, in cui i nostri dovranno affrontare agenti mercenari e terrificanti signori della guerra, mentre scopriranno una cospirazione che minaccia di spingere il mondo sull'orlo di un conflitto globale.

Ballers (4a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 28/10/2019 Qui - In attesa della quinta (ed apparentemente) ultima stagione, ecco la quarta stagione di Ballers, la serie tv ambientata nel mondo del football, dove presenza dominante è sempre Dwayne "The Rock" Johnson, l'attore più pagato al mondo, che qui troviamo sempre più centrato che nei vari film muscolari per adolescenti (e non). Nelle prime tre stagioni (quiqui e qui) l'azione si svolgeva a Miami, nell'ambiente che ruotava intorno ai Dolphins e alle vicende di Spencer Strasmore, ex campione con ambizioni nel mondo della finanza. Giocatori, procuratori, groupie, giornalisti, gente senza arte né parte che vivono delle briciole della NFL. La forza della serie era (ed è) proprio questa: una notevole credibilità nel raccontare i meccanismi imprenditoriali e mediatici dello sport, con ironia (molti personaggi sono al confine della macchietta, alla fine anche il socio di Strasmore, Rob Corddry) e un certo senso critico. La NFL e soprattutto la NCAA ne escono (soprattutto in questa stagione) a pezzi, un po' monopolisti e un po' maneggioni, o comunque con l'immagine di un circolo di pescecani bianchi che si arricchiscono sulla pelle degli atleti afroamericani, cioè del 75% del personale della NFL. La questione razziale è non a caso un grande asso nella manica di Ballers: sempre latente e a volte manifesta, mette in contrasto soprattutto i neri integrati con quelli che del sistema sfruttano soltanto i soldi ma senza crederci. Tema ben trattato, tranne che nella quarta serie (questa), ambientata per lo più a Los Angeles, piena di pistolotti anti-Trump e in palese malafede, come quando si vuole dimostrare che la base del trumpismo sono le élite (invece è certificato che sono i bianchi di classe media e bassa).

Room 104 (2a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 28/10/2019 Qui - Dopo una prima stagione tra alti e bassi, una prima stagione comunque di buon livello complessivo, anche se soddisfacente solo nel quadro della sufficienza (qui la recensione), ecco la seconda stagione di Room 104, la serie che grazie al suo più o meno innovativo format, quello di svolgersi all'interno di una modesta camera d'albergo di una catena americana, e di raccontare in ogni episodio le più svariate storie dei clienti dell'hotel, riuscì a dare vita ad una ricca antologia di 12 episodi, presentando ad ogni puntata un cast, un tema e una storia diversa, variando dai toni più leggeri della commedia a quelli più cupi dell'horror e del dramma. E stessa cosa accade in questa nuova stagione, una stagione che come la precedente presenta un impressionante elenco di persone dietro la telecamera, ma anche al di là della stessa. Questa stagione vede infatti il primo lavoro da regista di Josephine Decke (qui anche sceneggiatrice) dopo Madeline's Madeline, oltre a episodi diretti da Morales, il regista di Lovesong So Young Kim e il regista di Creep Patrick Brice. I creatori della serie Jay e Mark Duplass inoltre, sono tornati come produttori esecutivi, con quest'ultimo che torna anche come sceneggiatore e regista. Infine gli attori, che quest'anno ha dalla sua due pezzi da novanta, il premio Oscar Mahershala Ali e Michael Shannon, e poi anche Judy Greer, ed anche altri più o meno conosciuti, Joel AllenStephanie AllynneKatie AseltonBrian Tyree HenryNatalie MoralesRainn Wilson e Charlyne Yi. Ma se squadra cambia (tanti rispetto alla precedente i nomi e volti nuovi), non cambia come detto, il formato originale, 12 episodi collegati dal luogo, con la sobria camera di Motel del titolo che funge da base quest'anno principalmente per racconti di eventi soprannaturali, arrivi inaspettati e ricordi indesiderati che tornano in superficie (uno dei temi più volte proposti sono non a caso i sensi di colpa), ma soprattutto la qualità di produzione, medio/alta come di consueto quando parliamo della HBO. E quindi, come è andata quest'anno?

Arrow (6a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 28/10/2019 Qui - Dopo parecchio tempo dalla messa in onda (un anno più o meno, e ad un anno dalla recensione della stagione precedente, qui), ma oramai dovreste sapere che vado senza cronologia, ho concluso anch'io la sesta stagione di Arrow, non una delle migliori per la serie di punta di casa CW in tema supereroi. Una sesta stagione che fino alla sua metà era stata abbastanza godibile (insomma) quanto la quinta (quest'ultima sicuramente migliore della quarta), ma che si è persa proprio negli episodi dove si affermava l'ascesa di Ricardo Diaz a villain assoluto di questa stagione. Il problema è stato proprio lui, Ricardo Diaz. Un cattivo troppo cattivo, che opera il male per rivalsa e vendetta e niente più. L'unica cosa atipica del suo personaggio è che paradossalmente alla fine non muore e sarà sicuramente un pericolo anche nella prossima stagione. Sarebbe stato molto più interessante proseguire l'arco narrativo che riguardava il gruppo di nemici assoldati da Cayden James (Michael Emerson ancora alle prese con i computer), che quanto meno è stato un antagonista particolare e con una serie di skill uniche nel suo genere che poteva dare molto più filo da torcere. Se non fosse stato che qualcuno degli sceneggiatori, a metà stagione circa, ha deciso che no, meglio tornare su un filone narrativo standard, facendo emergere un super-cattivo banalissimo. Cayden James e il suo gruppo era stato capace di seminare discordia e dividere il Team Arrow, dando linfa ad una sceneggiatura che si è concentrata molto sui problemi personali di ogni membro della squadra, originando situazioni spiacevoli e tutto sommato interessanti da seguire. Quando poi si è voluto creare l'effetto sorpresa, eliminando il villain a metà stagione per farne emergere un secondo molto più potente, qualcosa si è guastato. E si è giunti ad una serie di episodi scialbi che hanno rovinato il giudizio dell'intera stagione. L'ultimo episodio è stato atipico. Dopo un'intera annata dove tutto quello che aveva un costo a Star City era stato pagato da Diaz, l'FBI entra in scena e si ricorda di avere un certo peso e prende posizione contro il criminale.

Gomorra (4a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 12/06/2019 Qui
Tema e genere: Giunge al giro di Boa numero 4 la serie di Sky prodotta dal trio Sollima-Cupellini-Comencini. Una quarta stagione, composta da 12 episodi, e conclusasi poco tempo fa, che nuovamente tratta dall'omonimo romanzo di Roberto Saviano, continua nel suo percorso del potere criminoso.
Trama: La quarta stagione riparte esattamente da dove si era chiusa la terza: Genny Savastano da solo sullo yacht a largo del Golfo di Napoli su cui pochi istanti prima ha ucciso, su ordine di Enzo, Ciro Esposito. Dopo la morte de "L'Immortale" il protagonista viene riportato a riva. Solo e in pericolo di vita decide quindi di volare a Londra, con lui la moglie Azzurra, per cominciare a costruire qualcosa di vero. A Napoli intanto gli equilibri sono saltati, ma un accordo viene trovato, e tutto sembra ristabilito, però niente dura in eterno.
Recensione: Sì è fatta attendere quasi un anno e mezzo la quarta stagione di Gomorra, serie che dopo il finale choc dell'annata precedente (qui la recensione) lasciò gli spettatori appesi a un filo, curiosi di sapere dove gli autori della serie avrebbero deciso di dirigere il racconto. La quarta stagione arrivava quindi accompagnata da tantissimi punti interrogativi, sia per quanto riguarda il piano prettamente drammaturgico (come sarà il racconto senza la presenza di Ciro?) sia per quanto concerne il rapporto di pesi e contrappesi tra i personaggi più importanti della serie, vista la necessità di creare nuovi equilibri. Ebbene, il responso non è del tutto positivo, anzi. La serie infatti, presenta un interessante ed affascinante scenario sempre più intenso e noir nella configurazione delle location e nella riproduzione delle colonne sonore. Ma per il resto la suddetta non fa altro che continuare con i soliti contenuti e nelle solite dinamiche fatte di guerre tra clan rivali per il monopolio dei quartieri della città (tematiche riprese anche in Suburra), di amicizie e tradimenti continui, di storie d'amore finite male, degli avvicendamenti al potere, delle paranze, dei vecchi boss, delle sparatorie e degli omicidi cruenti. Tutte cose interessanti certo, ma che cominciano leggermente a stancare, anche perché in questa stagione si ritorna al punto di partenza, stagione in cui molte cose non funzionano, a partire dai personaggi e la storia, seppur la costruzione dei personaggi (soprattutto di Enzo Sangue Blu e Patrizia Santoro) funziona bene, ma la quarta stagione di Gomorra sembra dimenticarsene, scegliendo di sacrificarne uno dei due (Enzo) pur di dare più spazio a tre storie meno interessanti: la costruzione del nuovo aeroporto di Napoli, l'introduzione della famiglia dei Levante e quella del magistrato Ruggieri. Il problema dei personaggi è essenzialmente un problema di scrittura. Salvatore Esposito è ancora qui, con i suoi pregi e i suoi difetti, ma dopo la dipartita di Don Pietro, Donna Imma, Salvatore Conte e Ciro di Marzio, è evidente come Gennaro Savastano non sia più abbastanza per tenere in piedi lo show. La quarta stagione butta qualche nuovo personaggio nel mix, ma fallisce completamente nel dare ai nuovi coprotagonisti un qualsiasi senso di profondità. Non è solo un problema di recitazione, ma piuttosto un errore fondamentale di scrittura che tende a rendere le nuove personalità tristemente monocromatiche. La differenza principale tra Pietro Savastano e Gerlando Levante la si trova proprio qui: Don Pietro lo si ama o lo si odia sulla base che se ne condividano o meno le idee, mentre Gerlando è un personaggio scritto come "cattivo" per il solo fine di esserlo. Soffre dello stesso problema il personaggio di Alberto Resta: non avendo una qualsiasi profondità, al momento della sua morte si prova solo un senso di delusione, come se le sue scene nelle prime otto puntate siano state un semplice riempitivo. L'introduzione di questi personaggi e la side story dedicata alla costruzione dell'aeroporto sono arrivate ad un prezzo: a pagarlo è stato il personaggio di Enzo Sangue Blu, totalmente dimenticato nella prima metà della stagione e ridotto a macchietta per maggior parte della seconda metà.

venerdì 11 ottobre 2019

Vikings (5a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 09/10/2019 Qui
Tema e genere: Quinta stagione per la serie televisiva canadese di genere storico creata e scritta da Michael Hirst, incentrata sulle gesta del popolo vichingo.
Trama: Ivar, ancora pieno di rabbia per la morte del padre, dopo l'uccisione del fratello Sigurd al termine di Vikings 4, continua a sfogare la sua rabbia muovendo ancora guerra sul suolo inglese per espandere le conquiste dei Norreni (ma anche altro vorrebbe ed avrà). Floki, dopo la morte di Helga, parte per seguire la voce degli dei e si imbarca su una minuscola barca alla ricerca di una nuova vita (la troverà ma ad un prezzo). Dopo che Re Ecbert ha firmato il trattato per cedere parte delle sue terre ai Norreni, suo figlio, Re Aethelwulf, cerca di sfuggire ai pagani con l'aiuto del Vescovo Heahmund. I figli del Re Aethelwulf, Alfred e Aethelred, però non saranno in accordo col modo di agire del padre (che ben presto morirà, e complicata sarà la successione, ingombrante lo zampino della madre). Lagherta continuerà a regnare a Kattegat, ma sarà sempre più minacciata.
Recensione: La serie Vikings, al termine della quarta stagione (qui la recensione), aveva gettato le basi per un'importante svolta nella trama mostrando la morte di Ragnar Lothbrok e le prime anticipazioni su chi avrebbe assunto un ruolo da protagonista nelle puntate inedite. Il creatore dello show, Michael Hirst, ha chiuso (forse sbagliando) un importante capitolo della storia e ha dato vita a spunti narrativi inediti che, tuttavia, forse per colpa dell'assenza della sua punta di diamante, non sono riusciti a mantenere intatta l'atmosfera che aveva contraddistinto fin dal suo inizio il progetto targato History. Questa stagione infatti, segna non solo il punto più basso, ma lascia nello spettatore un senso di frustrazione notevole. Rabbia per aver lasciato che un prodotto valido, innovativo ed indipendente venisse abbandonato a sé stesso. Rabbia per una sceneggiatura quasi inesistente, se non in alcuni momenti di tensione davvero alta (che si possono contare sulle dita di una mano). Delusione per la mancanza di personaggi nuovi a cui appassionarsi, a cui interessarsi e legarsi, come era accaduto nelle stagioni precedenti. Guardando questa stagione si ha l'impressione di osservare una nave che affonda senza la possibilità di salvarla. Una stagione povera di novità e dove quei pochi personaggi che potevano sembrare interessanti scadono nella banalità, prima di essere eliminati completamente per mancanza di logica o coerenza di trama (la suddetta è infatti abbastanza confusa). Il personaggio di Jonathan Rhys Meyers, che prometteva di portare nuova linfa vitale, è stato sballottato da un lato all'altro, finendo in una rete di monotona inutilità. Si tratta tuttavia soltanto di un rappresentante di quella che è una serie lunga di esempi. Personaggi male utilizzati o poco sfruttati, in questo contesto, sono stati davvero tantissimi. Sono mancate le fondamenta che avevano reso la serie tv di Michael Hirst un punto di riferimento tra gli sceneggiati storici. Vikings era un'innovazione nel suo genere: per i dialoghi, le dinamiche e le trame. In questo caso, dato che si è già detto come i personaggi siano allo sbaraglio, non si può che sottolinearne anche la scialba parlantina. Forse si poteva definire Vikings ai suoi albori come "acerba" nei dialoghi, ma quest'ultimi non sono mai stati così brutti come in queste circostanze (e il doppiaggio non aiuta).

Riviera (2a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 03/10/2019 Qui
Tema e genere: Seconda stagione della serie televisiva britannica dai toni drammatici e thriller creata da Neil Jordan e prodotto originale Sky.
Trama: La trama della seconda stagione di Riviera riprende esattamente da dove si era interrotta: dopo il tête-à-tête con Adam e conseguente burrasca Georgina viene salvata da Raafi Al-Qadar (Alex Lanipekun), un uomo di affari in luna di miele con la moglie Daphne (Poppy Delevingne), che diventa amica della protagonista ed è la figlia di Lady Cassandra Eltham (Juliet Stevenson), che nasconde un inaspettato segreto. Un segreto (più di uno) che verrà a luce e scompiglierà le carte, che metterà in difficoltà Georgina, che nel frattempo si ricongiungerà con il suo carismatico zio Jeff (Will Arnett), e verrà quindi svelato qualcosa in più sul difficile passato che la donna si è lasciata alle spalle negli Stati Uniti, e in ultimo dovrà anche fare i conti con affascinanti e misteriosi personaggi (uno, Noah) e loschi individui (tanti, uno in famiglia e l'altro no).
Recensione: Quasi quasi tenderei a rivalutare la prima stagione, valutata positivamente ma con tante riserve (qui la recensione), perché quelle riserve in questa seconda stagione non si sciolgono, anzi, la stagione cerca infatti di dare nuova linfa ad una trama sempre a rischio in più punti nel scivolare in atmosfere e in svolte narrative da soap opera, introducendo ulteriori personaggi e dando maggior spazio ai misteri, ma non ci riesce. I nuovi arrivi, aumentano la percentuale di intrighi internazionali, tra morti, opere d'arte e relazioni sentimentali ed economiche, ma la confezione patinata e incredibilmente glamour ideata per Riviera, tra famosi dipinti, yacht e residenze lussuose, non riesce a mettere in secondo piano la narrazione in cui il grado di irrealtà cresce in modo esponenziale fin dal primo episodio, tra morti e "ritorni in vita" (più o meno) inaspettati. Una narrazione che riprende dal finale della prima stagione, che riprende la storia di una famiglia in lutto, ancora alle prese con la "morte" del capofamiglia, che certamente ha un buon ritmo, e infatti la seconda stagione della serie originale di Sky Atlantic non ci lascia mai un momento di tranquillità, ma sono davvero troppe le cose da raccontare, e purtroppo, come spesso accade, quando ci sono diverse storyline intrecciate, si fatica a renderle efficaci tutte quante. Perché sì, gli sceneggiatori cercano di allontanarsi lievemente dai sentieri già percorsi, anche facendo scoprire qualche pagina inedita sul passato della protagonista interpretata da una (ancor più) statica Julia Stiles, ma quello che ne esce, insieme a tutta la rete di bugie e dettagli oscuri che contraddistingue la loro famiglia, è ugualmente una puntata (più puntate) di Beautiful. Infatti la somiglianza con titoli maggiormente vicini alla soap opera, come anche Dallas o Dynasty, non scompare, anzi, e al contrario, fin dal primo episodio diventa evidente a causa appunto del ritorno di una figura che sembrava ormai destinata a far parte del passato dei protagonisti.

Warrior (1a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 25/09/2019 Qui
Tema e genereIspirata dai racconti di Bruce Lee, la serie irrompe nel mercato con calci, pugni e spettacolari arti marziali. Nonostante l'azione sia un elemento chiave, emergono anche tematiche come i diritti dei lavoratori e il razzismo. Eppure, non è errato affermare che si tratti principalmente di uno spaghetti western in salsa cinese.
TramaNel 1878, San Francisco è sul punto di esplodere. Imprenditori che sfruttano lavoratori cinesi a basso costo hanno causato disoccupazione e scontento tra gli irlandesi nativi. Chinatown, nel frattempo, è fiorita diventando il cuore vibrante della città, anche se controllata dalle tong, clan criminali coinvolti in attività illecite come il gioco d'azzardo e la prostituzione. La situazione è così tesa che il sindaco è obbligato a creare una forza speciale per Chinatown, ingaggiando il riluttante Bill O'Hara, un poliziotto irlandese razzista, corrotto e indebitato. In questo contesto arriva Ah Sahm (Andrew Koji, il cui comportamento, movenze e stile di combattimento evocano il leggendario protagonista di "Il furore della Cina colpisce ancora"), un maestro di arti marziali indomabile. Venuto a San Francisco alla ricerca di una ragazza misteriosa, il suo ritrovamento segnerà solo l'inizio dei suoi guai.
Recensione: Il nuovo fiore all'occhiello di Cinemax, "Warrior", è già stato rinnovato per una seconda stagione e trasmesso in Italia su Sky Atlantic. Nonostante i paragoni inevitabili con "Peaky Blinders" per il suo focus sulle gang, "Warrior" segue un ritmo tutto suo, risultando ancora più coinvolgente. La serie unisce combattimenti coreografati, intrighi politici e l'atmosfera turbolenta della San Francisco del 1870, mantenendo alta l'attenzione e l'interesse per tutti i dieci episodi. Sotto la supervisione di Jonathan Tropper (showrunner di "Banshee"), "Warrior" prende vita da un'idea originale di Bruce Lee del 1971, inizialmente scartata da Warner Bros e Paramount. Shannon Lee, figlia di Bruce, ha poi recuperato il progetto, portandolo sullo schermo nel 2015 con la regia di Justin Lin. Sin dal pilot, la serie si distingue per il suo stile pulp e per le somiglianze con "Peaky Blinders", narrando le lotte tra gang cinesi nelle Chinatown americane del XIX secolo, note come Tong Wars. Presenta un microcosmo corrotto e razzista, dominato dalla legge del più forte. Pur offrendo una rappresentazione non caricaturale della società americana dell'epoca, "Warrior" si rivolge principalmente a un pubblico maschile, non esitando a mostrare scene di sesso esplicite, in linea con lo spirito del canale via cavo di Warner, e dando grande risalto al kung fu. Grazie all'abilità degli stuntman, i combattimenti rappresentano il vero punto di forza di Warrior, mantenendo lo spettatore incollato allo schermo grazie al loro realismo.

American Horror Story: Apocalypse (8a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 11/09/2019 Qui
Tema e genere: Ottava stagione delle celebre serie tv antologica horror creata da Ryan Murphy e Brad Falchuk.
Trama: Una crisi missilistica ha ridotto la terra in un agglomerato di scorie radioattive sterminando la quasi totalità della popolazione mondiale. I più ricchi hanno trovato riparo in bunker chiamati Avamposti, ma come e perché è successo? ma soprattutto chi la scatenata?
Recensione: Una serie che ha raccolto numerosi estimatori American Horror Story, fin dalla sua messa in onda dall'ormai lontano 2011, ma al contempo ne ha persi tanti. Poiché la serie antologica creata da Ryan Murphy, probabilmente la creazione più popolare del produttore e regista americano, tra le principali creazioni artefici del suo successo, ha offerto punti davvero alti di televisione ma anche sonori tonfi. Però nonostante i non eccezionali risultati delle precedenti stagioni (compresa la settima, Cult), egli, insieme a Brad Falchuk, ci riprova, e il risultato in parte sorprende, perché seppur emergono nuovamente segni di stanchezza creativa e di brillantezza nella costruzione narrativa, lo show si mantiene di buon livello. Perché certo, Ryan Murphy è bravissimo a calarsi in qualunque registro, maestro nella costruzione di personaggi complessi e dal vissuto delicato, egli si dimostra però meno abile a gestire il tutto d'insieme, a conferire unità alla varietà, a mantenersi coerente. L'horror, il demenziale, il cinema muto, la Fabbrica di Cioccolato dell'Apocalisse, ognuno di questi elementi è perfettamente realizzato in se stesso ma perde di senso nella globalità dello show, che risulta sovraccarico. Tuttavia non si può negare che Apocalypse rappresenti un netto miglioramento rispetto al recente passato della serie. Anche se questa svolta positiva debba essere presa come fonte di speranza o occasione di una degna e auspicabile chiusura, sarà il tempo a dirlo. Comunque, non all'altezza delle prime stagioni, lo show conferma ugualmente un trend in discesa, ma grazie al fandom e alla storyline interconnessa riesce a confezionare un buon prodotto seriale d'intrattenimento. Infatti Apocalypse, ovviamente lontano anni luce dalla perfezione di Asylum, si avvicina alla piena sufficienza di Coven, di cui è crossover insieme a un altro riuscito capitolo della serie, Murder House. Una scelta che si è rivelata curiosa, interessante e certamente originale nelle sue intenzioni iniziali, quella appunto di voler riunire in un'unica stagione i nuclei narrativi della prima e terza stagione della serie, che seppur non convince fino in fondo, trova una sua dimensione e forza. Questo grazie all'intreccio, che si discosta dalle precedenti contaminazioni in quanto quest'ultima connette direttamente quelle due stagioni. Se prima i legami erano dei puri e semplici riferimenti per fan, Apocalypse è frutto diretto dell'intreccio da quelle due storyline. L'Anticristo (se non era ancora chiaro dal banner è lui il personaggio della stagione) contro la confraternita di Streghe. Un scontro atteso e che è il fulcro di questa nuova stagione. Uno scontro fra titani. Questa decisione è in un certo senso la croce e delizia dell'ottava stagione che funziona in gran parte grazie alla spasmodica attesa di carpire tutte le interconnessioni tra i vari cicli di episodi. Funziona in gran parte per un fattore nostalgia e di affetto, però, dal punto di vista narrativo, la nuova storyline che non si dirama in modo congruo, anzi, complessivamente si completa ed estende in modo discontinuo. Ci sono puntate strepitose per costruzione narrativa e altre molto flosce e di puro "rilassamento". Alcune puntate riservano grandi momenti d'intrattenimento ma altre sono banali e soffrono di una costruzione sufficiente e superficialità.

Chernobyl (Miniserie)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 04/09/2019 Qui
Tema e genereChernobyl è la serie tv (miniserie per esser precisi) che racconta cosa è successo nel 1986 ricostruendo la storia fatta di errori e menzogne che hanno contribuito a causare il peggior disastro nucleare di sempre.
Trama: Era l'1:23 del mattino del 26 aprile del 1986 quando una potente esplosione alla centrale nucleare di Chernobyl vicino Pripyat a 120 km da Kiev, sconvolse l'URSS, l'Europa e il mondo intero.
Recensione: Quanto è difficile parlare di Chernobyl. Sono quegli eventi che segnano la storia dell'umanità, la mettono in pericolo. Poi il tempo passa, finché l'uomo non trova il coraggio e la lucidità di raccontarli. Ed è un bene: Chernobyl è presente nell'immaginario di molti, anche di chi quel giorno non era ancora nato. Si sa che è accaduto qualcosa di epocale, rimbalzato sui media e finito sui libri di storia, ma raramente si conoscono le dinamiche, i protagonisti, i fatti. La miniserie, prodotta da Sky e HBO composta da cinque puntate girate da Johan Renck, andata in onda dal 10 giugno e per cinque settimane su Sky Atlantic, si da proprio questo obiettivo: dare al mondo una narrazione di un certo rilievo artistico che abbia la potenza di denunciare l'orrore di ciò che è accaduto. Tutto questo lo fa non cadendo nella tentazione di altre rappresentazioni ispirate a fatti reali: drammatizza ma tiene a bada la traslitterazione, l'impulso di romanzare le singole biografie, perdendo lo spirito documentale, l'evento macro nella sua gravità. Chernobyl, invece, mostra con efficace e angosciante realismo le conseguenze dell'incidente avvenuto quel maledetto 26 Aprile 1986. Chernobyl infatti, entra nel dettaglio, spiega con cura, fa rabbrividire, mostra gli effetti di quell'esplosione radioattiva sulla carne umana e nelle vite dei protagonisti. Chernobyl racconta la tragedia umana di persone che combattono contro un nemico invisibile e imprevedibile, un male che non si può vedere se non nei suoi effetti agghiaccianti, ma non propriamente quantificabili. Per farlo si avvale di una regia molto efficace, di una fotografia che predilige le tinte grigiastre, cupe, scure, di una sceneggiatura solida che crea un collante molto solido tra le vite di personaggi molto diversi e distanti e che avvalora ogni singola parola pronunciata all'interno di un'idea narrativa composita e molto efficace. La colonna sonora è essenziale, scarna, a tratti ricorda il tema di Jaws, con il quale si può dire che condivida la questione dell'invisibilità del pericolo, il quale si manifesta frequentemente a livello sonoro con rumori graffianti che da sottofondo diventano spesso pervasivi. Con una ricostruzione accurata e brutale, dunque, veniamo trascinati in un'esplorazione degli eventi e delle scelte che hanno portato alla catastrofe nucleare e che l'hanno parzialmente arginata. Al centro di questi due poli troviamo un denominatore comune: l'uomo, che con le sue bugie è in grado non solo di compromettere la buona riuscita di un esperimento, ma di distruggere se stesso. Difatti Chernobyl non mostra soltanto la sofferenza fisica, la deturpazione, i danni ambientali, ma anche l'ingiustificabile e volontaria miopia politica, e soprattutto l'innocente ingenuità di un popolo che ha pagato a carissimo prezzo, con la vita, l'irresponsabilità di altri. Come presumibile, gli eventi della serie si concentrano in gran parte nella vicina cittadina di Pripyat, città più di tutte investite dalla devastazione. I protagonisti sono a turno un pompiere, una moglie casalinga, un politico, un fisico nucleare, con la dichiarata volontà di mostrare come è stato percepito il tragico evento, da ogni punto di vista. Tutto parte a guaio già avvenuto, il reattore 4 ha dato problemi, il nocciolo è esploso, nessuno sembra crederci, ma si capisce subito che la situazione sia delicata, sebbene gli ingegneri, i politici, minimizzino. È inaccettabile per la razionalità umana (tanto fiduciosa nel progresso e nel mondo che verrà dato lo spirito del periodo) accogliere l'idea di aver innescato una reazione a catena fuori controllo, aver esposto milioni di persone, le generazione future, a morte precoce. Si prova una certa dissonanza interna, psicologica, la mente si rifugia in altre verità. E quindi non è il panico la reazione dei protagonisti, ma la negazione, "è tutto sotto controllo", "non è niente di che" si ripetono tra loro, mentre la catastrofe si realizza, si aggrava.

mercoledì 28 agosto 2019

Manifest (1a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 28/08/2019 Qui
Tema e genere: Prima stagione della serie tv fantascientifica prodotta da NBC in collaborazione con Robert Zemeckis.
Trama: Nel 2013 il volo 828 della Montego Air decolla dalla Jamaica, si imbatte in una turbolenza, e atterra a New York. Solo che per loro sono passate ore, ma nella realtà sono passati cinque anni e si ritrovano nel 2018. E tutto ciò che conoscevano è cambiato.
Recensione: Le serie tv in grado di rapire dopo un semplice pilot (come questo qui presente) si contano, ormai, sulle dita di una mano. Se vi sfidassi a citarmi cinque serie tv di cui eravate assolutamente certi, senza alcun dubbio, dopo soli 40 minuti? Difficile rispondere, non è così? Ebbene, contro ogni aspettativa (che, lo ammetto, pensavo mi avrebbe condotto all'ennesima trashata americana) il pilot di Manifest ha fatto molto più che sorprendermi. Mi ha rapito, totalmente. Oltre a consigli di blogger amici (che sono, almeno per me, l'ultima linea difensiva nella scelta tra le serie tv del catalogo sempre più vasto di novità) a spingermi tra le braccia di questo ibrido di Lost e Fringe (che è andato in onda in chiaro in televisione nei mesi scorsi) è stato Robert Zemeckis (che qui è produttore della serie), a cui sono legato cinematograficamente parlando. A proposito di LostManifest (creata da Jeff Rake, con le mani in pasta in molte serie più o meno recenti) è palesemente una figlia di Lost, appartenente a quella specie di sottogenere fatto di mistero, cast corale, drammoni filtrati dal soprannaturale/fantascientifico e, se possibile, un bell'aereo (non per caso da tutti è stata definita l'erede di quella serie che all'epoca, dolente o non dolente, fece storia). Il richiamo più evidente di Manifest alla vecchia serie sui naufraghi sta proprio qui: i protagonisti sono tutti su un aereo, un volo 828 (invece di 815) che anche in questo caso scompare dai radar. Attenzione però, perché qui non precipita nessuno, e non ci sono isole. L'aereo arriva sano e salvo e destinazione, con appena un po' di turbolenza verso metà volo. E allora dove sta il problema? Semplice, sono passati cinque anni dal momento della partenza. Ecco qui il concept semplicione e "acchiappaspettatori": un gruppo di persone che viaggia nel futuro senza neanche saperlo, e che si ricongiunge con un mondo di parenti, amici e colleghi che aveva perso ogni speranza. E da qui, come da manuale, partono tante storie continuamente intersecanti, che mescolano il drama puro (ragazze che ritrovano gli ormai ex fidanzati finite con le migliori amiche, ragazzini che trovano le sorelle gemelle invecchiate di cinque anni, padri alle prese con figli cresciuti e traumatizzati) con il mystery altrettanto puro, venato della giusta dose di complottismo (che diavolo è successo all'aereo e ai suoi passeggeri?), e come se non bastasse alcuni di loro cominciano a sperimentare strani fenomeni, capendo ben presto che potrebbero essere coinvolti in qualcosa più grande di quanto abbiano mai creduto possibile. A guidarci in questa assurda e spaventosa situazione è una famiglia newyorchese composta da Josh Dallas, il principe azzurro in C'era una volta, che interpreta un'analista e padre di famiglia che cerca in tutti i modi di trovare una cura per il figlio affetto da una rara forma di cancro. Melissa Roxburgh (Star Trek: Beyond) invece interpreta sua sorella e poliziotta alle prese con una vita completamente stravolta. Ed infine la dottoressa Saanvi (Parveen KaurThe Strain) che, prima di imbarcarsi sul misterioso volo, aveva trovato una cura proprio per la tipologia di cancro di cui soffre il piccolo Cal (ma tanti altri personaggi si affacceranno puntata dopo puntata). Ed è così che Manifest ci intrattiene pedissequamente, perché dopo appunto un pilot davvero accattivante, l'azione non si fa aspettare troppo e desta da subito la giusta curiosità nello spettatore interessato a scoprire cosa è successo sul quel volo che ha "sospeso nel tempo" i suoi passeggeri. Il ritmo incalzante dal canto suo prosegue per le puntate successive. La storia madre procede (bene) tra strani eventi, inspiegabili morti, omicidi sospetti e misteriose sparizioni, e si evolve man mano senza mai lasciare le redini. In ogni puntata viene inserita una pezzetto in più dell'enorme ed intricato puzzle che ha come soggetto i passeggeri del volo 828 e strane organizzazioni segrete (e su questo punto sempre interessante è capire ogni volta qualcosa in più di tutto). Lo stesso però non si può dire della vita privata dei protagonisti che rimane sempre sulla stessa oscillante barca di rabbia, affetti e rimpianti, che poi affoga in sentimentalismi spiccioli.

C'era una volta (7a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 28/08/2019 Qui
Tema e genere: Settima ed ultima stagione della serie fantasy che rilegge i classici Disney e storie della letteratura fantasy.
Trama: La nuova stagione inizia con l'adulto Henry che apre la porta di casa e trova una bambina che afferma essere sua figlia.... vi ricorda qualcosa? Ovviamente Henry segue la bambina e si scoprirà affascinato da una bellissima Cenerentola... Già, stesso incipit e stessi collaudati meccanismi. Cambia l'ambientazione, non siamo più a StoryBrooke (ma a Seattle), però troveremo nuovamente molti dei nostri amati (o odiati) personaggi a ricoprire nuove cariche e lottare contro il cattivo di turno.
Recensione: Le favole sono leggende diffuse in tutto il mondo e ogni era, popolo o cultura le reinterpreta a modo suo. In un'antichissima versione greco/egiziana, Cenerentola era addirittura una prostituta. Il multiverso delle favole è affascinante: devono averlo pensato anche Edward Kitsis e Adam Horowitz, i creatori di C'era una volta, quando si sono ritrovati a dover proseguire una storia che sembrava essersi conclusa in modo minimamente soddisfacente col finale della sesta stagione. Un season finale che aveva il sapore di un series finale e che metteva un punto a una lunga saga generazionale che, tra alti e bassi, aveva saputo coinvolgere i spettatori grazie a incroci di favole sempre più improbabili, flashback in stile Lost e colpi di scena degni delle migliori soap opera. L'annuncio di una settima stagione, ambientata dopo un time skip di dieci anni, aveva lasciato tutti molto perplessi (come accennato in occasione della recensione della sesta, qui). C'era una volta aveva cominciato a esaurire i colpi in canna, tant'è che nelle ultime stagioni avevano preso vita, oltre ai miti greci, persino le storie di Jules Verne e Robert Louis Stevenson. Inoltre, alcuni tra i principali protagonisti della serie (e in particolare le attrici Jennifer Morrison/Emma Swan e Ginnifer Goodwin/Biancaneve) avevano deciso di abbandonare la nave, lasciando a Lana Parrilla/Regina, Colin O'Donoghue/Capitan Uncino e Robert Carlyle/Tremotino il compito di trainare la settima stagione insieme a una new entry: Andrey J. West, cioè il nuovo Henry trentenne. Era l'inizio della fine. Purtroppo la scelta di un soft reboot (che rivisita un po' tutto e paradossalmente vedrà l'apparizione degli attori che avevano deciso di uscire) si è rivelata quasi fallimentare, perché è praticamente la stessa storia, ancora ed ancora. La settima stagione inizia infatti come la prima, solo che questa volta è una bambina a bussare alla porta di un Henry Mills adulto: si chiama Lucy e sostiene di essere sua figlia. Henry, dal canto suo, dice di aver perso sua moglie e sua figlia in un incendio e di essere semplicemente uno scrittore divenuto famoso col libro che racconta le avventure narrate nelle stagioni precedenti. Ci risiamo: qualcuno ha lanciato un'altra maledizione che ha modificato i ricordi di alcuni personaggi, fabbricando per loro una vita alternativa nel quartiere di Hyperion Heights, a Seattle. Lucy è l'unica che ricorda come stanno le cose e che sa che Henry, in realtà, ha sposato sua madre, una versione alternativa di Cenerentola (ha le fattezze dell'attrice dominicana Dania Ramirez) che avrebbe incontrato dopo aver lasciato Storybrooke per viaggiare tra i reami. Il proseguo è prevedibile, la conclusione anche. È inutile quindi dire che l'abusatissimo twist della maledizione ha fatto il suo tempo: quasi ogni stagione di C'era una volta è ruotata intorno a un incantesimo che ha dislocato i personaggi o ha causato diverse forme di amnesia. A questo punto la maledizione è diventata un appuntamento annuale anche un po' ridicolo, soprattutto perché sappiamo che i nostri eroi troveranno sempre un modo per scioglierla. C'è da dire che quest'anno gli autori hanno effettivamente provato a rimescolare un po' le carte, inforcando una strada più cupa, ma la solita struttura (a flashback) non ha aiutato, e poi un intreccio via via più complicato a ogni puntata lo ha affossato. Un intreccio confusionario che ha inoltre sofferto anche a causa del carisma sottotono di alcuni personaggi chiave. Tra questi per assurdo anche i due principali Henry/Cenerentola, i due personaggi sono semplicemente poco interessanti nel mondo delle favole e hanno zero alchimia in quello reale, la loro immancabile love story non resa al meglio. E così che la settima assomigli troppo a quello che abbiamo già visto e rivisto nelle stagioni precedenti. E quindi non ci si stupisce se si è deciso di chiudere. Si perché, C'era una volta si unisce purtroppo a quelle serie televisive che finiscono con l'essere prolungate insensatamente, culminando in epiloghi affrettati e superficiali. Peccato, perché se gli autori avessero avuto il coraggio di tentare qualcosa di diverso forse le cose sarebbero andate diversamente.

DuckTales (1a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 28/08/2019 Qui
Tema e genere: Con una grafica completamente nuova, torna una delle serie Disney più amate degli anni '90, DuckTales riparte da zero, con una nuova storyline ma con i protagonisti di sempre, svecchiati e resi attuali dalle sapienti mani dei disegnatori (quasi tutti italiani).
Trama: Con giusto una spruzzata di trama orizzontale, a farla da padrone sono soprattutto storie auto-conclusive, dove il divertimento non manca mai.
Recensione: Per le persone cui la spensierata infanzia è coincisa con il periodo a cavallo tra gli anni '80 e '90, DuckTales è sinonimo di pomeriggi indimenticabili all'insegna di genuino intrattenimento, risate a non finire, avventure fantastiche e, adesso, tenera nostalgia. Perché in fondo la serie Disney era magia pura: quelle storie confinate per anni nella carta di incalcolabili numeri di Topolino prendevano vita, anche portando in dote personaggi e racconti nuovi di zecca, quelle voci fino a quel momento soltanto immaginate trovavano una impensabile realizzazione sullo schermo. Era un sogno poter seguire il grande Paperon de' Paperoni nelle sue mirabolanti ed esotiche imprese, accompagnato dai fidi nipoti, sempre pronti a lanciarsi all'insperata ricerca di un nuovo tesoro mentre la Banda Bassotti, Amelia o il rivale Cuordipietra Famedoro tentavano inutilmente di contrastarlo. E dopo tanto (troppo) tempo si è deciso di dare nuovamente fiducia a Paperino e soci, e un vero e proprio reboot di DuckTales è arrivato per dimostrare al mondo che quel modo di intrattenere, semplice e adatto a tutti, non è sparito o diventato all'improvviso fuori moda. La vita a Paperopoli è ancora un gran sballo. Tornare nella città dei paperi più famosi al mondo dà esattamente le stesse sensazioni di quei pomeriggi all'insegna della tranquillità: ogni cosa è al suo posto, Paperino rimane inevitabilmente il solito irascibile imbranato, Paperon de' Paperoni è ancora lo scorbutico miliardario tirchio e Qui, Quo e Qua hanno sempre una voglia insaziabile di avventure, seppur ciascuno per ragioni diverse. Anche la marea di (amatissimi) personaggi di supporto fa il suo ritorno: da Jet McQuack, con il suo irrefrenabile desiderio di schiantarsi contro qualunque cosa con qualunque mezzo di trasporto, alla dolce ma preparatissima e combattiva Gaia, non manca nessuno all'appello. Com'era prevedibile, il concept è rimasto piuttosto tradizionale, visto che le ventidue (anzi 23 da 20 minuti ciascuna) puntate che compongono la prima stagione sono storie auto-conclusive con giusto una spruzzata di trama orizzontale. Ne basta una manciata per rendersi conto della straordinaria varietà e freschezza delle situazioni proposte, dall'umorismo diversificato che i personaggi portano in scena, della semplicità giocosa che fuoriesce da ogni scena in un'esplosione di fantasia e creatività senza limiti. Da laboratori enigmatici in fondo al mare a covi di pirati nei cieli, invenzioni bizzarre e mondi mistici, DuckTales è davvero una continua gioia sorprendente, mai banale, mai fiacca, grazie anche a un comparto artistico squisito (non si fanno attendere alcune rielaborazioni di personaggi secondari, molto ben riuscite). Il character design inizialmente lasciava dubbiosi, ma dopo poco tempo il dubbio si è completamente dissipato: l'animazione scorre sempre in modo estremamente piacevole, espressiva e perfettamente contestualizzata nell'andamento della trama. Una trama che si fa più adulta con addirittura morti e lacrime, ciascuno dei nemici di Paperone rappresenta un pericolo proporzionato al suo essere, così la Banda Bassotti diventa quello che è sempre stata semplicemente una banda di ladri mentre Magica De Spell (Amelia) si trasforma nella vera minaccia, un restlyng che colpisce, con un crescendo fino al paperoso finale di stagione (un finale sorprendente, uno dei misteri più grandi della storia dei paperi sta per essere risolto, tramite una di quelle storie che mai nessun autore in 80 anni ha mai avuto il coraggio, o la licenza, di parlare). In particolare il personaggio della fattucchiera, legato a quella di Lena, che convince riguardo la crescita emotiva della serie. Una serie che a più di 30 anni dall'esordio della serie originale, appare non solo rinnovata, ma anche al passo con i tempi, compie il salto generazionale di cui aveva bisogno e propone un'avventura molto più attuale, più avvincente e anche più fantasy.

domenica 11 agosto 2019

Billions (4a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 07/08/2019 Qui
Tema e genere: Quarta stagione della serie sul mondo della finanza di produzione Showtime con protagonisti Damian Lewis e Paul Giamatti.
Trama: La storia riprende precisamente da dove si era interrotta, ovvero il momento più buio dei due protagonisti: Chuck è stato sconfitto dal suo rivale, il procuratore generale Jock Jeffcoat (un biblico Clancy Brown), e ha perso il suo lavoro e importanza politica, mentre Bobby è costretto ad affrontare il tradimento di Taylor (Asia Kate Dillon), fuggito trionfante dalla Axe Capital e nuovo CEO di un suo fondo speculativo. Nasce allora una sorta di perversa alleanza tra i vecchi rivali, pronti a darsi sostegno reciproco pur di placare la loro sete di vendetta. Da questa premessa la trama si biforca in due estesi archi narrativi, che all'occasione si intersecano, e che daranno vita ad una lotta senza esclusioni di colpi dei due per fermarli e riprendersi la propria posizione.
Recensione: Arrivato alla quarta stagione e con una quinta già assicurata, Billions non ha bisogno di presentazioni (ormai non più), se ti siedi su una poltrona, accendi Sky (metti su Sky Atlantic) e scegli di vedere Billions sai già cosa ti aspetta (l'hai già visto nelle precedenti stagioni, qui la recensione della terza). Sei pronto a una lotta esagerata a colpi di inganni, sotterfugi, corruzione, una sfida costante a dimostrare la superiorità sull'altro su un nemico da identificare di volta in volta. Un po' come la politica italiana in cui c'è sempre la gara a chi la spara più grossa, a chi attacca un nemico diverso per difendere le proprie mancanze e mantenere il potere. Cadenzata dal ritmo incessante della parola, Billions è infatti una serie ricca di movimento pur non essendo un action, ricca di suspense pur non essendo un thriller, è un drama potente e elitario, una serie non destinata a tutti a cui non interessa parlare a tutti, a cui non interessa far capire tutto e a tutti del suo mondo "complicato". Anche perché non è importante capire ogni parola finanziaria, ogni risvolto tecnico che viene elencato nella serie, tanto il senso è abbastanza chiaro: fregare (termine più gentile possibile ma si capisce quello più "giusto") il proprio nemico. Ma attenzione non ci sono nemici fissi, tutto cambia alla velocità della luce nel mondo di Billions. Una serie esagerata, piena di frasi e scene ad effetto, sopra le righe ma proprio questa sua esagerazione che la rende quasi un "fantasy finanziario" come se rappresentasse un mondo che non esiste, è proprio la sua forza. Una serie che continua a mostrarci il lato peggiore di quello che viene definito l'1%, quella parte della popolazione ricca e potente che controlla il mondo e passa il tempo giocando tra loro, sfidandosi costantemente, ignorando il restante 99% spesso più un fastidio per loro. Ma andiamo con ordine. Dopo essersi combattuti Bobby e Chuck capiscono che è arrivato il momento di unire le forze, che non sono l'uno il nemico dell'altro ma che il nemico è fuori e spesso se lo sono coltivato in casa. Taylor erano i pupilli di Bobby (il personaggio è di genere non binario quindi non ha un'identificazione di genere) ma si rivelano il suo peggior nemico, Brian era il delfino di Chuck, l'ha pugnalato in nome della giustizia ma la sete di potere sconfigge la presunzione di onestà. Li sconfiggeranno? Presumibilmente, ma non ne siamo sicuri. La quarta stagione (che è comunque il perfetto proseguimento del racconto iniziato 4 anni fa) elimina definitivamente il personaggio dell'ex moglie di Bobby (e i relativi figli) diventati inutili nell'economia globale della serie, e trova al suo personaggio una compagna più simile a lui con cui può non solo avere una relazione ma anche sfidarla negli affari. In parallelo il rapporto tra Chuck e Wendy si complica e la loro intima relazione dalle venature sadomaso avrà una svolta completamente inaspettata, evolvendosi da semplice elemento di colore a componente psicologica importante dei personaggi e soprattutto per Chuck, capiremo meglio quanto la ricerca del dolore sia fondamentale per il suo successo.