Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/11/2017 Qui - Partito in sordina, con un cast in gran parte sconosciuto, episodio dopo episodio, stagione dopo stagione, la serie canadese targata History Channel, ovvero Vikings, si è guadagnata uno stuolo di fan non indifferente e tanti consensi. Vikings infatti, accurata quanto basta (senza diventare eccessivamente tediosa), ben strutturata narrativamente, con personaggi accattivanti ed appassionanti, è probabilmente una delle serie storiche meglio costruite che si ricordi. Guardarla è sempre un viaggio nel tempo, un'immersione totale all'epoca in cui i vichinghi portarono le loro chiglie affusolate a toccare le spiagge di mezzo mondo. Incentrata nuovamente in questa quarta stagione sulle gesta del leggendario re e predone Ragnarr Loðbrók (un bravissimo Travis Fimmel), ideata e scritta come sappiamo da Michael Hirst (la penna a cui dobbiamo Elizabeth, i Tudors, Uncovered e Camelot, bravissimo a creare qualcosa che si allontana totalmente dai cliché hollywoodiani), la serie ha lanciato le carriere di Katheryn Winnick, Clive Standen, Alyssa Sutherland, Alexander Ludwig e Gustaf Skarsgàrd (che solo ultimamente ho scoperto essere il fratello di Alexander Skarsgård, Hidden e Crazy Dirty Cops, e Bill Skarsgård, il nuovo It). Ma se nelle prime tre stagioni (ben costruite le prime due, qui e qui, forse troppo riflessiva e filosofica ma ugualmente spettacolare la terza, qui) il fulcro della narrazione era quasi sempre stato Ragnarr, con le sue ambizioni, i suoi errori, le sue imprese, dove molto spesso gli altri personaggi (pur se ben sviluppati) erano sovente di contorno, in questa nuova stagione invece le cose cambiano. Anche se non del tutto in meglio, perché questa quarta stagione che segna un punto di rottura con le precedenti, divisa in due parti, da dieci episodi ciascuna, seppur reinventa completamente la serie, sfoltendo molti dei suoi protagonisti in favore di facce nuove, a partire dai cinque figli di Ragnar Lothbrok, diventati a tutti gli effetti le nuove colonne portanti della storia, non sempre riesce a convincere appieno.
Tuttavia, sia per impatto emotivo, sia per grandiosità di alcune scene realizzate, la prima e la seconda parte, quest'ultima nonostante anche un abbandono eccellente, riescono ugualmente a sorprendere ed appassionare. Se infatti l'intreccio mantiene intatto (rispetto al passato della serie) la sua componente di verosimiglianza e di imprevedibilità, dove questa serie riesce veramente a fare il salto di qualità è nell'approfondire quei personaggi che, pure se accattivanti e ben fatti, sovente avevano avuto ben poco spazio nelle serie precedenti o potevano averne di più. Il che è una scelta che sicuramente può apparire azzardata ma che se ben gestita, come in questo caso, può dare dei frutti inaspettati ed allontanare lo spettro della noia e dell'esaurimento della trama (anche se sono state davvero troppe le sotto-trame, alcune anche non interessanti, soprattutto nella corte di Parigi, ma anche del personaggio alquanto estraneo di Kevin Durand). Vikings 4 infatti, che (ri)comincia da dove era finita la terza, con Ragnarr, semi-agonizzante dopo le ferite riportate durante l'assedio di Parigi, con l'ormai adulto Bjorn che non mostra alcun tentennamento nel prenderne il posto per portare avanti ciò che è necessario, e conclusasi con un finale di grande intensità ma anche sorprendente, è stata davvero intensa per tutte le cose incredibili e spiazzanti che sono successe, soprattutto una davvero sconvolgente. Perché è stata una quarta stagione avvincente, ben dosata e di livello.
Il primo grosso pregio è (nonostante qualche viatico inutile) una maggiore sensazione di compattezza della storia e delle trame narrate, che, soprattutto dopo l'evento cardine di questa stagione (a metà della seconda parte), ossia la morte di Ragnar, confluiscono di forza verso un unico scopo. Ed è interessante anche vedere come il tutto sia un transfer letterario, perché lo stesso personaggio di Ragnar corre incontro e pianifica la sua fine con lo scopo di far ritrovare unità al popolo vichingo, quell'unità necessaria alla realizzazione dei suoi sogni, che lui non vedrà avverarsi ma che solo lui potrà mettere in moto. Ragnar, alla fine, ha una visione talmente ampia del futuro del suo popolo e una tale dedizione a plasmare quel futuro che arriva a capire e concepire come lui stesso sia e debba essere sacrificabile per lo scopo. Ed in quel transfer letterario di prima, vediamo proprio avvenire la stessa cosa per la serie, la morte di Ragnar ridà compattezza, scopo e direzione allo stesso racconto che recupera tutti i rivoli e li trasforma in fiume in piena che si abbatte tanto sugli Anglosassoni quanto sugli spettatori che non possono che essere colpiti dalla perdita di un personaggio tanto amato e fondamentale, ma che ritrovano l'epicità della Storia (quella con la S maiuscola) in un nuovo filone carico di drammi e tensioni. D'altronde c'è un prima e un dopo.
Perché effettivamente c'era stato un prima, una serie di episodi che riprendevano il filo della narrazione a distanza di qualche anno dalla sconfitta francese e dal tradimento di Rollo, che aveva costituito il finale della prima parte di quarta stagione di Vikings, e che vedeva l'evoluzione del mondo norreno come un disordinato susseguirsi di eventi, alla maniera di un popolo che non è mai stato unito, ma composto da una moltitudine di individui e clan. In questo prima abbiamo seguito diverse linee narrative, dal tentativo di Bjorn di spingersi verso il Mediterraneo, alla lotta di Lagertha per la conquista del trono di Kattegat, alle problematiche interne alla famiglia di Ragnar condite da rivalità tra i fratelli, al viaggio di Ragnar stesso in Inghilterra. Tutto questo è stato un po' funzionale a riprendere le fila del racconto, un po' necessario per presentare il nuovo ambiente e le nuove figure, soprattutto della seconda generazione vichinga, ed ha costituito un buon insieme di episodi, scorrevoli ed interessanti, specie sul piano storico, raffigurando la sempre maggiore espansione esplorativa e corsara di un popolo ed anche l'evoluzione dei Vikings da coltivatori e naviganti ad una maggiore identità commerciale (si veda l'evoluzione stessa di Kattegat), ma mancavano di quell'epicità che avevamo visto a tratti nelle stagioni precedenti, sia che fossero i primi approcci con l'Anglia, sia la roboante spedizione in terra francese. Solo Ragnar poteva riunire le fila e così è stato.
Ragnar muore, è artefice della propria morte e sceglie di morire con tutta la fierezza che contraddistingue l'essere vichingo, in un episodio praticamente monografico che, pur sapendo storicamente cosa sarebbe successo, ha una carica emotiva enorme per lo spettatore, che in anni ha identificato lo show con Travis Fimmel, con la sua esuberanza, pazzia e genio. Il momento era atteso, ma è risultato difficile e soprattutto lascia delle preoccupazioni, cosa sarà Vikings senza Ragnar? Ma il buon vichingo, e il creatore Michael Hirst con lui, hanno avuto ragione nuovamente. Tutte le trame sono di nuovo confluite in una, con la breve parentesi, pur collegata, dell'assalto a Kattegat, tutti i protagonisti, con l'eccezione di Lagertha, si sono di nuovo trovati sotto lo stesso metaforico tetto e la tanto attesa grande nuova spedizione in Inghilterra ha potuto avere inizio, portandoci ad assistere a momenti veramente importanti. L'aquila di sangue su Re Aelle, ma soprattutto la grande battaglia finale, gestita con tutta la carica vichinga e con i brillanti piani di Ivar sono lo spettacolo che stavamo aspettando e che porta a compimento un lungo piano. Ma i piani di Ragnar, i successi temporanei saranno destinati a fallire? Viste le ultime scene dell'episodio finale e conoscendo la tempra vichinga, pare proprio di sì, quantomeno in parte.
Il grande sogno del defunto Re Vichingo, di trasformare la sua gente da orda in popolo, sembra scontrarsi con la dura realtà che l'unità è avvenuta solo per una vendetta ma non durerà, ognuno proseguirà per la sua strada come le lotte intestine continueranno. Ora che la vendetta è infatti compiuta, che i due re responsabili sono morti, la furia si placa e tornano ad emergere le vecchie e mai sopite ostilità, soprattutto tra i cinque, ora quattro dopo uno scatto d'ira, fratelli, Ubbe (Jordan Patrick Smith), Hvitserk (Marco Ilso), Sigurd (David Lindström) e Ivar (Alex Hogh), mal visti da Lagertha, e Bjorn. Senza dimenticare lo sgambetto finale di Ecbert, che apre le porte a futuri scontri in terra straniera. È qui che si ricollega molto probabilmente l'apparizione nell'epilogo con il personaggio interpretato da Jonathan Rhys Meyers, un uomo di Chiesa dalla dubbia moralità. E quindi nuove storie ci attendono nella quinta stagione, ma un popolo vichingo unito, temo di no. Ma certamente grazie a ciò, ne risulta un finale in linea con ciò che è stato Vikings nella sua seconda parte di stagione, mai perfetto, ma tutto sommato valido. Probabilmente non sempre all'altezza delle aspettative, e con una grave incognita sul futuro di questa serie, va bene senza Ragnar, ce ne faremo una ragione, ma anche senza Re Ecbert, riusciremo ad appassionarci veramente? L'introduzione finale è indubbiamente un'ottima mossa, che ci fa ben sperare, ma è ancora presto per dirlo. In ogni caso questo season finale (e questa stagione) si merita un più che discreto voto, nella speranza che la prossima stagione non sia anche l'ultima, ma credo proprio di no. Voto: 7,5
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