venerdì 28 giugno 2019

Room 104 (1a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 10/04/2019 Qui - Un format poco diffuso, una struttura non convenzionale, non facile sembrava in partenza, eppure alla fine si rimane più o meno soddisfatti dalla nuova serie antologica (12 puntate in totale) di HBO, Room 104. Una serie, firmata dai fratelli Duplass (che per HBO avevano già sviluppato la dramedy Togetherness, non con tanto successo), con un concept molto semplice ed una struttura narrativa decisamente suggestiva, si raccontano cose accadute all'interno della stanza 104 di un albergo. Infatti ogni episodio fa storia a sé e l'unica cosa che rimane invariata per tutta la stagione è la location: la stanza 104 di un motel statunitense, non meglio localizzato geograficamente. In tal senso viene spontaneo associare questa configurazione (anche se in questo caso però è sicuramente importante anche menzionare l'influenza della serie britannica Inside No.9, che con Room 104 condivide anche l'ambientazione al chiuso, oltre che il format) a Black Mirror, probabilmente lo show che in questi anni ha contribuito maggiormente (grazie alla sua qualità e al successo ottenuto) a rilanciare questo tipo di prodotti, ed effettivamente si individuano alcuni punti di contatto, seppur esclusivamente a livello concettuale, tra le idee alla base delle due serie televisive: i fratelli Duplass, così come Charlie Brooker soprattutto nelle ultime due stagioni, scelgono di spaziare molto tra i generi narrativi a loro disposizione, proponendo episodi molto diversi tra loro per struttura narrativa, tematiche introdotte e caratteristiche tecniche. Ogni episodio, quindi, ha una storia diversa, con attori e autori diversi, temi diversi, taglio differenti, con un proprio stile caratteristico e sviluppi imprevedibili: non c'è un filo logico evidente o una tematica di fondo a collegare la stagione, né dal punto di vista narrativo che strutturale rispetto alla trama verticale di ogni episodio. La stagione è a tutti gli effetti una raccolta di cortometraggi (considerata la durata molto breve di ogni puntata, poco più di venti minuti) che vanno analizzati singolarmente e che, proprio per questo motivo, determinano l'andamento altalenante della qualità della serie. Anche perché raccontare una storia in 20 minuti è difficile, si può sbagliare in qualsiasi momento e arrivare in fondo senza aver trovato una chiave efficace o senza aver costruito un percorso inattaccabile. Non a caso ad episodi eccellenti ne corrispondono altri molto deludenti e alle volte addirittura disastrosi, con una trama inconsistente e priva di mordente.
Tuttavia con tutti i possibili difetti del caso di un mondo che si apre e si chiude nell'arco di venti minuti circa, anche se vanno considerati anche tutti i pregi, soprattutto quello che da un punto di vista strettamente qualitativo, trattandosi di un prodotto HBO, il tutto è curato nei minimi dettagli (regia, scelte di casting, scrittura: nulla è lasciato al caso), il poco tempo a disposizione riesce però (nella maggior parte dei casi) a catturare l'attenzione quasi in modo ipnotico sulle vite strane, romantiche e nostalgiche di un ventaglio di protagonisti incredibili ed eccezionali. A tal proposito, per far sì che i personaggi funzionino, la serie creata e prodotta da Jay e Mark Duplass (quest'ultimo conosciuto più nei panni di attore rispetto al fratello, che tuttavia qui è l'interprete principale anche di una puntata, la quarta), vanta un cast per forza di cose vastissimo: tra i vari attori che si succedono, compaiono anche Ross Partridge, Nat WolffJames Van Der Beek, Amy Landecker, Clark DukeOrlando Jones, Mae Whitman, Philip Baker Hall e Keir Gilchrist. Attori non di livello assoluto ma perfetti tutti nel conferire ai personaggi ed alle storie la giusta efficacia, la giusta impronta, il proprio stile. Lo stile di uno show che si pone fin da subito l'obiettivo di esplorare territori ancora sconosciuti nell'universo della serialità, proponendo variazioni significative e coraggiose alle classiche regole dello storytelling, che premette tuttavia una difficoltà di fondo nel far breccia nel cuore dello telespettatore contemporaneo che potrebbe stancarsi facilmente e abbandonare anzitempo (magari dopo un episodio particolarmente sottotono) la serie HBO. Io non l'ho fatto, ma dopo una partenza ad alto impatto, che proponeva un tesissimo horror psicologico, il pilot infatti, intitolato Ralphie (diretta da Sarah Adina Smith e scritta da Jay Duplass), che racconta la storia di una babysitter di nome Meg (Melonie Diaz, The Belko Experiment) che accetta l'incarico di badare, proprio all'interno della Room 104, ad un ragazzino che sembra soffrire di un disturbo dissociativo dell'identità, che riserverà per questo allo spettatore un'evoluzione inaspettata, che non concederà (nonostante i ventitré minuti di durata) alcuna tregua, rivelandosi un riuscitissimo thriller/horror psicologico con elementi mystery dal finale enigmatico, qualcosa va storto.
Colpa forse del suo lato avanguardistico e sperimentale? Questo aspetto infatti, che emerge in tutta la sua potenza ed esplosività nella parte centrale della stagione, composta da un dittico di episodi che rappresentano, per motivi diversi, le potenzialità infinite dello show, si parla di "Internet" e "Voyeurs", due storie totalmente diverse e stilisticamente agli antipodi: se nella prima si fa della verbosità e del linguaggio il principale motore della trama, la seconda è caratterizzata dall'assenza di dialoghi e veicola la narrazione attraverso il linguaggio del corpo delle due attrici coinvolte, non tutti possono apprezzare. Questo episodio tra passato e futuro difatti, che attraverso l'arte del balletto e della danza interpretativa, vorrebbe rappresentare il livello massimo di sperimentazione visiva offerta dalla serie, annoia abbastanza presto, il che in venti minuti non è proprio il massimo. Al contrario "Internet", che si basa sulla sola incredibile performance attoriale di Karan Soni, un ragazzo del 1997 che tenta di spiegare alla madre come inviare un'importantissima e-mail dal suo computer, è fresco e comunicativo. La genialità del concept si sposa infatti con una realizzazione magistrale e un discorso più ampio sull'incomunicabilità generazionale, all'interno del quale l'evoluzione tecnologica gioca un ruolo di primo piano. Scritto da Mark Duplass e diretto da Doug Emmett (anche direttore della fotografia di tutti gli episodi), l'episodio contestualizza il periodo storico in cui è ambientato con il formato 4:3, a riprova di come ogni segmento antologico tenti di crearsi un'identità propria e definita. Nonostante si sia detto (e non lo si vuole negare) che non esista un vero fil rouge tra le vicende dei diversi ospiti della stanza 104, se si passa ad un livello superiore di interpretazione si nota come ci si trovi quasi sempre di fronte ad individui in lotta, o semplicemente in comunicazione, con il loro passato recente o lontano. È il caso per esempio di "Boris", la storia di un tennista sul viale del tramonto che si confronta con l'esperienza traumatica della guerra e di come il proprio talento lo abbia reso un superstite, la pesantezza del senso di colpa è però un elemento ricorrente, lo si ritrova infatti anche in "Sapevo che non eri morto", nello straniante "The Knockadoo", in "I missionari" e nello struggente "Amore mio" che chiude la stagione.
Ancora diverso il rapporto tra la protagonista di "La fenice" e il suo recente trascorso, sfuggita ad un incidente aereo approfitta della situazione per fuggire e provare a ricominciare una nuova vita, nonostante si debba confrontare con il peso di abbandonare la propria famiglia. Le eccezioni a questa tendenza narrativa, incentrata quasi totalmente sull'interiorità dell'individuo, sono "Pizza Boy", "Il match" e "La tenda rossa". Se il primo, caratterizzato dal fatto che il colpo di scena finale determina a posteriori il significato della trama, non riesce a lasciare il segno, di tutt'altra pasta sono il decimo e l'undicesimo episodio, molto più interessanti e degni di nota. "Il match" trasforma la stanza 104 in un vero e proprio ring sul quale si affrontano Natalie Morgan e Keta Meggett, due lottatrici di MMA che si accordano sullo scontro che avrà luogo il giorno successivo, l'esperienza di fisicità che l'episodio genera è totale, tanto che sembra di trovarsi davvero di fronte ad un incontro di arti marziali. "La tenda rossa", invece, trova il suo punto di forza nel collegamento con la politica contemporanea tratteggiando, con due soli personaggi e un dialogo intelligente, le ansie e le insicurezze degli americani nei confronti della classe dirigente. L'episodio non lesina dal porre interrogativi complessi e moralmente ambigui, qui collegati chiaramente alla presidenza di Trump ma che possono essere estratti dal contesto e generalizzati. E insomma Room 104 è un prodotto complesso e innovativo, frutto della creatività di numerosi autori, tra sceneggiatori e registi che ha nella sua volontà di avventurarsi nei territori meno battuti della serialità una delle sue armi vincenti. Non tutti gli episodi centrano questo obiettivo (la struttura non impone neanche di doverli vedere per forza tutti), ma il progetto dei fratelli Duplass (che vedrà successivamente una seconda stagione), se analizzato nella sua interezza, è notevole, è di livello, merita una visione, soprattutto alla luce di alcuni episodi decisamente riusciti. Episodi che spaziano brillantemente (ma non sempre purtroppo, perché appunto alcuni episodi sono anche altamente prevedibili) tra i generi, dall'horror della prima puntata, al dramedy del quarto episodio fino all'originale (seppur personalmente noioso) episodio interamente danzante. In definitiva perciò, bene ma non benissimo. Voto: 6

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