giovedì 20 giugno 2019

Black Mirror (4a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 04/10/2018 Qui - Ormai è diventato un appuntamento fisso, uno di quelli di cui sentiamo l'esigenza. Nonostante in realtà ci faccia male, ci angosci, ci crei solo paranoie e preoccupazioni. Ma Black Mirror, la serie antologica ideata e scritta quasi totalmente da quel geniaccio di Charlie Brooker, è un qualcosa che serve alle nostre coscienze per fare i conti con quel pezzettino di anima che ogni giorno stiamo vendendo al diavolo della tecnologia. Perché non importa quanto possiamo essere consapevoli e attenti nel nostro uso di cellulari, computer, social e similari, ognuno di noi sa perfettamente di essere sempre più schiavo di oggetti che anno dopo anno non fanno altro che condizionare la nostra vita. Non è un caso forse che la serie in questione già un anno (in verità 2) fa sia stata adottata in esclusiva da Netflix, un altro colosso tecnologico che ha cambiato per sempre il nostro modo di rapportarci con il mondo e, in fondo, di dipendere da quello "specchio nero" che Brooker ci sta raccontando, con molte varianti, dal 2011. Perché a prescindere dalla qualità artistica il grande merito di Black Mirror (che giusto per spiegare a quei pochi che magari non la conoscono, è una serie di puntate auto-conclusive, con un cast sempre diverso e trame totalmente slegate fra loro, l'unico punto in comune è il raccontare futuri dove la tecnologia ha in qualche modo totalmente cambiato il nostro modo di vivere, nella quasi totalità di questi futuri il risultato è catastrofico e si mostrano lati orrendi dell'umanità, tuttavia non è mai stata una regola assoluta e il famoso episodio San Junipero della terza stagione ha aperto in qualche modo un filone nuovo, più filosofeggiante) è proprio questo, anticipare i tempi e raccontare non storie di fantascienza, ma di una realtà possibile e molto più vicina di quanto possiamo immaginare. Perché non ha importanza che la tecnologia sia disponibile o meno, tutto ciò che è presente nelle sceneggiature di Brooker e dei suoi colleghi viene dalla nostra società, dai nostri desideri più o meno inconsci, dai nostro comportamenti che già oggi permettono di capire quale potrebbe essere una futura evoluzione degli strumenti di cui già adesso non riusciamo a fare a meno.
Ed è per questo che anche se non tutti gli episodi sono sempre dello stesso livello, e forse manca una vera gemma a livello degli anni precedenti, non si può che essere ampiamente soddisfatti del lavoro fatto da Brooker ed essere sinceramente stupiti della sua capacità di raccontare tutti noi. Sono tanti infatti i sentimenti comuni quelli che popolano il nuovo affresco distopico, forse non più tanto originale come in alcuni exploit del passato (e in tal senso le alte aspettative, figlie delle stagioni precedenti che nel caso della 3a stagione si era rivelata ricca di alti e bassi, con episodi generalmente di ottima qualità e di cui si è potuto apprezzare soprattutto la diversità di genere, tradiscono, dopotutto immaginarsi scenari sempre convincenti non è facile, e non a caso i primi segnali di cedimento si percepiscono per un riciclo di temi e situazioni bene o male già proposti dalla serie), ma capace di imporre nuove terribili riflessioni su cosa sia disposto a fare l'essere umano per conservare quanto ha di prezioso o per raggiungere uno status di maggiore soddisfazione, di più perentoria affermazione di se stesso. In tal senso violenza è la parola chiave del quarto giro sulla giostra di Black Mirror: mentre negli scorsi episodi dominava la riflessione e il dramma psicologico che faceva contorcere le sinapsi dello spettatore (obbligandolo a lunghi silenzi riflessivi), in questa stagione (episodio dopo episodio) ci ritroviamo ad assistere a situazioni di pancia, scoprendo gli istinti primordiali e carnali dei protagonisti. La tecnologia non è più uno stile di vita, ma uno strumento alla pari di un coltello o una pietra: espedienti basilari, utilizzati per la distruzione. E per questo forse che non è una stagione perfetta, ci sono episodi più deboli di altri, ma è una stagione che funziona, che ha forza, anche perché alcune storie riescono ad infondere tanta ansia (anche per la loro durata) e seppur i suddetti episodi hanno il sapore di una minestra riscaldata, ciò non toglie che si tratti di un'ottima minestra. E quindi come già in passato, non è facile parlare di questa nuova stagione senza raccontarvi quello che avviene negli episodi in questione, tuttavia cercherò di essere il più breve possibile, e di evitare qualsiasi tipo di spoiler.
Un bizzarro viaggio all'interno di una serie sci-fi anni '60, palesemente ispirata a Star Trek, questo è USS Callister, il primo episodio di questa nuova stagione di Black Mirror diretto da Toby Haynes, regista televisivo piuttosto conosciuto in Inghilterra per Doctor Who e Sherlock. Ma non lasciatevi ingannare, perché sotto l'apparente look colorato e naïf si nasconde una storia di frustrazioni quotidiane e sordide vendette personali. Dopotutto siamo in un episodio di Black Mirror, possiamo mai avere a che fare solo con una parodia? Pensate davvero che ci si possa realmente divertire da queste parti? In USS Callister infatti, che è una godibile variazione sul tema videogiochi, che vuole immaginare cosa potrebbe succedere se una tecnologia potenzialmente incredibile come la realtà virtuale venisse messa nelle mani di uno squilibrato, la protagonista Cristin Milioti (la mamma di How I Met Your Mother) si risveglia a bordo dell'astronave del titolo in compagnia dell'intero equipaggio (comprendente anche Jimmi Simpson, House of Cards e sopratutto Westword) e del coraggioso e carismatico capitano interpretato da Jesse Plemons (Breaking Bad e Fargo), ma non tutto è come sembra. Ne esce per questo una puntata frizzante, unica nel panorama di Black Mirror, che ci regala anche momenti divertenti, perfettamente mischiati a quelli più drammatici. USS Callister bilancia abbastanza bene infatti l'ironia, la furbizia e soprattutto l'angoscia. Lasciarsi trasportare dalla puntata e immedesimarsi nella protagonista vuol dire vivere poco più di un'ora nel terrore. Un terrore totalmente basato sull'idea di rimanere bloccati per sempre e senza invecchiare (probabilmente) in un mondo diverso dal proprio. E in tal senso nonostante qualche forzatura nella trama, l'episodio risulta parecchio affascinante, e forse il suo punto di forza più grande consiste nel proporre situazioni mai completamente giuste o sbagliate. Qui gli autori giocano un po' difatti con la mente degli spettatori, insinuando una serie di interrogativi che possono rendere difficile prendere una posizione definitiva. Peccato solo per un finale sottotono, che non riesce ad incidere quanto avrebbe dovuto, colpa di una scrittura che non riesce a valorizzare veramente quanto seminato lungo il percorso. Nonostante questo, si merita parecchi complimenti. Voto episodio: 8
Arriva subito il segmento più debole di questa stagione, ed è la puntata intitolata Arkangel, giacché nella suddetta, anche se l'idea è interessante, lo sviluppo non è esaltante. La puntata infatti, diretta da Jodie Foster e che racconta di una nuova tecnologia che permette ad una madre (la Rosemarie DeWitt di Mad Men e Rachel sta per sposarsi) di tenere sempre sotto controllo la propria figlia, parte in modo ordinato, si sviluppa in modo ordinato e termina in modo ordinato. Manca il guizzo, il cambio di ritmo, ma non per questo è da condannare. Vuole raccontarci una breve storia (nello specifico, qui ci viene mostrato a cosa potrebbe arrivare una madre troppo apprensiva se le fosse data la possibilità di avere il controllo totale di sua figlia, per capirci meglio, localizzarla ovunque, vedere quel che vedono i suoi occhi, censurarle immagini e suoni "spaventosi", e conoscere il suo stato di salute minuto per minuto, capite bene quanto una cosa del genere sia profondamente sbagliata e non porti a nulla di buono, soprattutto dal momento che la bambina poi crescerà, e dovrà affrontare la difficile fase dell'adolescenza), e nel farlo si dimentica forse di premere sull'acceleratore, accantonando magari per un attimo il controllo. E tuttavia per questo non che la suddetta non faccia riflettere, dopotutto essa fa molto riflettere sul rapporto che si ha con i figli e di come appunto tutte queste nuove tecnologie possano influire e cambiare (non necessariamente in meglio) il modo in cui cresceranno, ma poco convince davvero. Perché certo, anche se i colpi di scena sono piuttosto prevedibili, lo scenario proposto è comunque inquietante e l'episodio non annoia mai, inoltre gode di una precisione apprezzabile, ma proprio non entusiasma. Colpa di un finale che non affonda il colpo, abbastanza crudo da rientrare nei canoni della serie e da colpire la spettatore abbastanza da farlo riflettere, ma di sicuro non è un colpo di scena. E quindi, anche se si lascia guardare, episodio anonimo e deludente, ma non brutto. Voto episodio: 6
Il terzo episodio invece, Crocodile, diretto dal regista australiano John Hillcoat (The RoadLawless e Codice 999) e interpretato da una glaciale Andrea Riseborough, è un vero e proprio pugno allo stomaco. Di sicuro è uno degli episodi più disturbanti di tutta la serie, una storia che davvero non lascia nemmeno un barlume di speranza sul futuro dell'umanità. Giacché con Crocodile, in cui la serie torna ad ipotizzare in maniera efficace uno dei suoi futuri che, fatta eccezione per alcune tecnologie rivoluzionare mostrate come d'uso comune, non sembrano poi così lontani dal nostro presente, l'idea claustrofobica dove il futuro ci riservi un mondo in cui non sia più possibile mentire (idea comunque in realtà già vista, seppur in chiave diversa, nella prima stagione), ci trascina in un vortice di morte e frenesia dal quale sarà impossibile uscire. Qui infatti esiste un dispositivo in grado di mostrare a schermo i ricordi delle persone, che viene usato ad esempio dalla polizia per risolvere i casi o, molto più banalmente, dalle assicurazioni per ricostruire le dinamiche di un incidente. Rovistare nella mente delle persone però può portare alla luce ricordi pericolosi, e infatti il passato di una giovane coppia tornerà a farsi vivo anni dopo che i due erano riusciti, apparentemente, a seppellire un terribile episodio. E quindi dopo un inizio compassato e inutilmente verboso, utile tuttavia a presentarci tutti gli elementi in modo chiaro, una seconda parte violenta (dopotutto questo è l'episodio più violento della stagione, in grado per questo di colpire) ci guida all'interno di un'indagine che avrà conseguenze davvero terribili. Avremo perciò un'indagine ed un epilogo in crescendo e che vi lascerà, nonostante qualche forzatura narrativa, senza parole, con un colpo di scena finale decisamente originale e sadico, abbastanza sadico quanto basta ad una puntata forse un po' distante dallo spirito a cui ci aveva abituato Black Mirror, puntando più sulla storia personale della protagonista, ma alquanto convincente. Voto episodio: 7+
L'episodio che oggettivamente è uno dei migliori della stagione, sia sul piano puramente tecnico che su quello narrativo, è Hang the DJuna storia romantica e se vogliamo anche positiva, che mette in campo un'idea originale, che affascina, incuriosisce, offre qualche spunto di riflessione e, nel finale, lascia abbastanza storditi. Tim Van Patten infatti, uno dei registi televisivi più celebrati degli ultimi decenni (da Boardwalk Empire: L'impero del crimine ad I Soprano, da The Wire a Il trono di spade), ci regala una perla di rara bellezza, portandoci in una società che regola i rapporti amorosi fra le coppie tramite un algoritmo che accoppia i diversi individui, lavorando sulla compatibilità data dai profili psicologici. L'episodio vede quindi protagonisti due giovani (Joe Cole e Georgina Campbell, entrambi talentuosi e dal luminoso futuro) alle prese con questa rivoluzionaria dating app dalle regole molto rigide, app che riserverà non pochi spunti. Cioè che, tra molta ironia e romanticismo, ma anche tra una bella ed originale riflessione su cosa voglia dire mettersi alla ricerca dell'anima gemella oggi, la morale poggi tutto sulla forza e sul significato intrinseco dell'amore, che non può essere figlio di un algoritmo (o forse si). Insomma un paradosso che sul finale stupisce e forse emoziona, che convince grazie a una sceneggiatura che cresce minuto dopo minuto, aiutata da una regia che rinuncia a inquadratura d'impatto ma preferisce piuttosto farci vivere tutta l'esperienza come se fossimo noi i protagonisti. I paragoni con San Jupinero si sprecano, ed è giusto cosi, anche se, seppur tocchi più gli aspetti umani della vita piuttosto che quelli tecnologici, l'argomento di Hang the DJ è troppo frivolo per renderle davvero paragonabili. D'altronde San Junipero era di un altro livello, tuttavia questo non passa inosservato, questo episodio è infatti parecchio bello. Voto episodio: 8-
Diretto da David Slade, affermato regista di video musicali ed episodi televisivi (tra cui show del calibro di Breaking Bad e American Gods), oltre che di film di genere quali Hard Candy, 30 giorni di buio e The Twilight Saga: Eclipse, Metalhead, è un episodio abbastanza strano. Strano che non vuol dire però brutto, perché l'episodio in sé, completamente in bianco e nero (a fare quasi da contrappeso al colorato USS Callister), funziona ed avvince, anche se di certo non aggiunge poi molto all'universo di Black Mirror e risulta molto meno graffiante ed incisivo rispetto a tutti gli altri. Tuttavia, proprio la spettacolare fotografia in bianco e nero con l'utilizzo di alcune riprese aeree, rende questo mini-film un piccolo gioiello di azione. Qui infatti siamo dalle parti dell'horror, con un breve ma tesissimo inseguimento. A tal proposito non ci è dato sapere nulla del perché la protagonista (e prima i protagonisti, tra cui Clint Dyer) stia fuggendo in un mondo post apocalittico in cui dei cani robot cercano di uccidere ogni essere vivente e né il perché questo questi cani esistano e siano così spietati. E in tal senso il difetto principale della puntata sta proprio nel non dare indizi, nel far mancare l'input giusto allo spettatore per quantomeno immaginare le motivazioni dietro tutto ciò che vediamo (anche perché difficilmente in futuro vedremo un sequel o uno spin-off per saperne qualcosa in più), e quindi c'è un senso di incompiutezza. Tuttavia l'intento degli autori che qui era più che altro quello di trasmettere sensazioni, come l'angoscia di essere costantemente e disperatamente braccati, è riuscito. Perché non solo inquietante è la somiglianza con i vari animali robot della Boston Dynamics di cui spesso vediamo video in rete, ma anche perché cattivo e spietato a sufficienza è il finale. Un finale ad effetto nonché frustrante e disarmante quanto basta. Voto episodio: 7
E concludiamo questa panoramica con quello che è l'episodio più ambizioso di tutti, e forse anche il più rappresentativo (nonché il migliore) di questa quarta stagione. Confezionato dallo scozzese Colm McCarthy (Sherlock, Peaky Blinders e Doctor Who), Black Museum infatti, è una delle puntate più crude di sempre e quella probabilmente più auto-celebrativa che la serie potesse partorire, una vera e propria cornucopia di easter egg provenienti da tutte le stagioni (anche la quarta stessa), che i fan soprattutto avranno sicuramente apprezzato. Questo perché parla di un museo sperduto nel nulla, all'interno del quale sono conservati vari ed inquietanti cimeli criminali. L'episodio però non si limita al fan service, e con la scusa di spiegare la storia dietro alcuni degli oggetti esposti ci propone praticamente dei mini-episodi al suo interno. Il bello è che queste brevi storie sono estremamente interessanti, e in poco tempo riescono ad imprimersi nella memoria più di alcuni interi episodi della stagione. Tramite una serie d'inquietanti flashback (memorabile la parabola infernale del dottor Peter Dawson, sostenuta da sequenze davvero terrificanti e disturbanti) ci viene infatti raccontata la storia di tutti questi oggetti, finendo poi con il pezzo forte, posizionato dietro una tendina rossa all'interno della sala del museo. Black Museum è difatti straordinario non tanto e non solo per il contenuto del racconto, quanto per il modo in cui tutte le vicende vengono srotolate e proposte allo spettatore, ed ovviamente perché questo mix di idee e racconti molto denso (un ulteriore buon mix fra la storia personale della protagonista e possibili terrificanti sviluppi medici/scientifici), in poco più di un'ora mette insieme tutta una serie di tasselli che si incastrano (anche un po' a sorpresa) nel finale, dove la protagonista (una perfetta Letitia Wright) trova non solo la sua vendetta, ma anche altro (in tal senso eccezionale è il dialogo tra lei e il proprietario che in un continuo crescere a livello di tensione, raggiungerà il culmine proprio sul finale). E quindi ancora una volta Black Mirror ci disturba e c'inquieta, grazie alle tematiche che utilizza e, soprattutto, nel modo in cui decide di applicarle alla nostra società. Dopotutto Black Museum è il classico episodio che ci ricorda quanto questa serie sia dolorosa ma necessaria e che, in fondo, non vediamo l'ora di scoprire cos'altro ancora temere per il nostro futuro. Magari per tante altre stagioni ancora. Voto episodio: 8+
Come avrete capito (anche solo facendo una media dei voti) la quarta stagione di Black Mirror mi è piaciuta, benché sia probabilmente la meno esaltante delle quattro. Perché anche se questa quarta stagione vive di alti e bassi, e anche se le idee non suonano mai veramente nuove e ci sono molti punti in comune con quanto già visto, nel complesso funziona. Merito soprattutto dei tre episodi migliori, e di una visione produttiva che continua a convincere, lasciando trasparire comunque (anche perché il potenziale per creare molti altri episodi c'è, anche se in tal senso far sì che mantengano un buon livello e non continuino a perdere colpi non è affatto un'impresa semplice) margini di crescita e miglioramento. Ogni volta pensiamo che sia dura fare meglio delle volte precedenti, la quarta stagione ci riesce, almeno in un'occasione, forse due, soprattutto se pensiamo al valore aggiunto (che non guasta) della serie, ovvero quello che probabilmente a molti già era evidente da un po' (non è mai stato così palese come in questa quarta stagione), cioè il fatto che le storie di Black Mirror, pur essendo a sé stanti, siano ambientate tutte all'interno di uno stesso universo. Ci sono davvero un sacco di dettagli infatti che legano i 6 nuovi episodi tanto a se stessi quanto alle precedenti stagioni, dando vita ad un unico e sfaccettato universo narrativo. Insomma qualcosa di unico e incredibile che fa nuovamente centro, perché anche se in questa stagione sei donne si ergono a protagoniste della stagione più esplicita di una serie che stravolge le sue regole e la sua struttura, osando spaziare ancora di più tra generi e narrazione che da abitudinaria vira leggermente verso altri modi di raccontare le sue storie, lasciando alcuni (soprattutto fan di vecchia data) spiazzati e delusi da alcuni episodi, obiettivamente deboli ma non per questo totalmente da buttare, la creatura di Charlie Brooker rimane una delle serie più angoscianti e crude, poiché riesce a parlare di noi con onestà, passando in rassegna tutti i nostri difetti, fobie e psicosi. La tecnologia è solo un mezzo d'espressione dei mostri che albergano in ognuno di noi in situazioni esasperate e in realtà futuribili: anno dopo anno Black Mirror acquista sempre più potenza, perché continua a farci riflettere più su noi stessi in relazione al progresso, piuttosto che sul singolo pezzo di hi-tech visualizzato nell'episodio. E per questo che l'attesa di un'eventuale prossima stagione c'è ugualmente. Voto complessivo: 7+

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