Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 25/10/2018 Qui - Nel 2017 (personalmente solo pochi mesi fa, esattamente prima di questa seconda stagione) The Handmaid's Tale aveva trascinato gli spettatori nel mondo distopico immaginato da Margaret Atwood con una crudezza feroce (tale che non serviva comunque essere madri o donne per sentire il timore agghiacciante del mondo tratto dall'omonimo romanzo della scrittrice canadese, un mondo che condivideva le ansie distopiche di George Orwell con il look grigissimo de I Figli degli Uomini e soprattutto col fanatismo religioso di un romanzo di Stephen King) dalla quale non si riusciva a staccarsi per il fascino magnetico di una sceneggiatura attenta, dei temi profondi, della bravura impareggiabile di un cast dove Elisabeth Moss era la luce più calda e brillante in un cielo dove splendevano stelle altrettanto ammirevoli (qui la mia recensione). La storia di Offred e delle altre ancelle vessate dalla teocrazia di Gilead era riuscita ad attirare su di sé le luci della critica e del pubblico anche per la capacità di insinuare il ferale dubbio che la distopia immaginata dalla scrittrice canadese oltre trent'anni fa non fosse poi un incubo tanto irrealizzabile in una società moderna dove femminicidi e discriminazioni sessuali sono ancora troppo presenti. In tal senso e per davvero si ha la sensazione che Gilead sia il posto (in cui tornare non è facile) più orribile, crudele e disumano che l'immaginazione possa mai concepire, una specie di specchio distorto ed estremizzato all'ennesima potenza dell'attuale governo USA. Non a caso il Canada, vicino di casa più piccolo e più verde (e soprattutto più liberale, come vedremo spesso in questa seconda stagione) è visto come il luogo idilliaco da raggiungere. A tal proposito una delle sequenze più riuscite di questo nuovo intermezzo è proprio quella ambientata a Toronto, quando una delegazione dello stato autoritario di Gilead viene invitata per discutere una serie di accordi bilaterali fra i due governi, ebbene, fino a quel momento abbiamo passato talmente tanto tempo nei confini di questa spregevole nazione estremista da iniziare a considerarla distante anni luce dalla nostra mentalità e soprattutto dal nostro mondo...solo per scoprire che, appena spingiamo la testa fuori, è proprio del nostro mondo che si sta parlando. E' quasi destabilizzante come viene bilanciato il rapporto fra Gilead e il Canada: quella che fino ad allora avevamo considerato una fantascienza distopica viene immediatamente trapiantata nel nostro presente. In quella scena c'è tutta la forza politica di The Handmaid's Tale, perché la serie non ci sta raccontando un ipotetico domani, ci sta raccontando l'oggi. E ci rendiamo conto che in questo momento, nel mondo in cui viviamo, ci sono donne i cui diritti vengono calpestati ancora di più rispetto a quanto accada nell'immaginario stato dei Comandanti.
Per questo la seconda stagione di The Handmaid's Tale (nonostante alcuni evidenti problemi, di cui si parlerà dopo) è ancora più dolorosa ed attuale, riconfermandosi perciò uno dei diamanti della serialità contemporanea. Cosa non facile per una serie tv, soprattutto per prodotti come questo, reduci da un grande successo (giacché The Handmaid's Tale è stata la serie televisiva che ha caratterizzato maggiormente la passata stagione televisiva, vincendo sia l'Emmy Award che il Golden Globe come migliore serie drammatica e conquistando in totale dieci premi, allargando il discorso alle altre categorie) e che finiscono il materiale originale da cui lo show è tratto. E tuttavia che per questo, seppur orfani di ciò che aveva scritto Margaret Atwood, gli autori alzano l'asticella proponendoci uno show ancora più duro da guardare ma allo stesso tempo innovandolo, mostrandoci "parti inedite" di Gilead. Ne sono un esempio le sequenze ambientate nelle Colonie, dove le donne "senza utilità" vengono costrette a lavorare in condizioni disumane. Un luogo triste e ameno dove aspettare la morte dopo essere stati sfruttati fino all'ultima goccia di sudore. E quindi anche se al contrario della prima la serie è più difettata (tanto che le critiche negative ricevute sono state tante) davvero eccezionale è anche questo intermezzo, non è un caso che in questo 2018 la serie tv ha fatto incetta di candidature ai premi Emmy Awards, confermando che anche questa seconda stagione è davvero molto valida. La seconda stagione di The Handmaid's Tale è infatti un incredibile viaggio di autocoscienza fatto dai personaggi dello show ma anche da chi guarda (poiché questa seconda stagione, composta da 13 episodi, ci mostra la gravidanza di June e la sua continua lotta per liberare il suo futuro nascituro dagli orrori distopici di Gilead, "Gilead è dentro di te" è uno dei motti preferiti di Zia Lydia, nella seconda stagione, Offred e tutti gli altri personaggi combatteranno contro, o soccomberanno a, questa oscura verità).
Gilead si mostra sempre più violenta, ingiusta e discriminante. Le torture (fisiche o psicologiche) a cui assistiamo sono innumerevoli e sempre più difficili da digerire. Cosa buffa se si pensa che questa doveva essere una terra promessa in cui purificarsi e riconciliarsi con Dio. Illuminante il fatto che, però, anche nei flashback vediamo dei piccoli (se paragonati al presente) segnali di discriminazione (come per esempio l'infermiera che continua a chiamare June con il cognome del marito), contestualizzando appunto alcuni temi anche ai giorni nostri. The Handmaid's Tale è una serie che offre dialoghi e monologhi illuminanti, ma il suo meglio (emozionalmente) lo dà con il silenzio (o al massimo delle urla) accompagnate dall'incredibile bravura delle sue interpreti. Elisabeth Moss si conferma bravissima ed espressiva come poche altre attrici. I suoi primi piani sono in grado di portare avanti da soli la narrazione. L'attrice è sempre più nella parte, fornendo una prestazione attoriale quasi superiore a quella dello scorso anno. Ma questa stagione fa in modo che anche Ann Dowd esprima tutto il suo potenziale: il suo personaggio granitico inizia a mostrare delle crepe di umanità che pensavamo avesse completamente rimosso, diventando molto più interessante. Va menzionata ovviamente anche Yvonne Strahovski, alla prestazione forse migliore della carriera interpretando un personaggio che, in modo quasi schizofrenico, passa dalla devozione verso suo marito e a Gilead a una donna che si rende conto di aver sacrificato tutto per una visione che inizia ad andarle stretta. La regia è eccezionale, con le sue inquadrature dall'alto, i suoi primi piani e la sua crudezza nel mostrarci le brutture di Gilead. La fotografia lo è altrettanto, in grado di proporci delle opere d'arte nel mescolare i colori, con il rosso delle ancelle che quasi acceca lo spettatore in un mondo grigio, così come il comparto musicale (in linea con la stagione precedente). E tuttavia il risultato finale non può dirsi completamente soddisfacente.
La qualità sopraffina della sceneggiatura della prima stagione è irrimediabilmente guastata dalle infelici scelte di accontentare le curiosità della fanbase il che costringe la serie a rallentare spesso perdendosi in strade laterali che non portano da nessuna parte (perché anche se a livello narrativo viene superata quella sensazione di ridondanza presente in precedenza, dopotutto abbiamo imparato a conoscere Gilead, le ancelle e la routine che ne consegue, ed è giusto concentrarsi su i vari elementi e storie, e anche se le emozioni e i momenti di tensione non mancano, con il desiderio di fuga di June sempre ben presente, la visione prosegue con un ritmo compassato). Il maggior numero di flashback e l'introduzione di nuovi personaggi non sempre sono efficaci e, al contrario, vengono sfruttati o troppo poco o troppo in fretta. Un esempio illuminante in proposito è il comandante Lawrence le cui potenzialità (in quanto ideatore del sistema delle Colonie e fortemente anticonformista) vengono sprecate per la fretta di arrivare al season finale. Non a caso la scrittura, al contrario della prima stagione, che era parsa estremamente coerente e coesa, e costruita su uno sviluppo chiaro e limpido dall'inizio alla fine, qui appare palesemente più farraginosa e schizofrenica. Il simbolo del problema può essere il rapporto fra June e Serena, che ha subito così tante giravolte e alti e bassi, da superare di slancio la giustificazione della crescita personale e morale della signora Waterford. Soprattutto, qui e là è apparsa netta la difficoltà nel creare fili narrativi abbastanza solidi fra le diverse scene madri che gli autori avevano palesemente in testa fin dall'inizio. Si pensi soprattutto (come già detto in precedenza) al modo in cui un personaggio potenzialmente spesso come Joseph Lawrence tradisca, sul finale, la sua natura di mero strumento per l'accorata (forse forzata) scena finale. Qualche passo falso insomma, una specie di ansia da prestazione che ha portato a concentrarsi maggiormente su alcune (anzi, parecchie) scene di grande impatto e significato simbolico, sacrificando la fluidità del racconto, un racconto comunque appassionante.
Infatti per quanto in questa stagione non siano mancati azione e colpi di scena, è parso che lungo i 13 episodi la protagonista si trovasse spesso rivivere situazioni già viste, a percorrere strade già battute, a girare e rigirare senza un destino chiaro. E qui però basta con le critiche. Perché se anche tutto quello che ho detto fino ad ora è vero (ammesso e non concesso), rimane il fatto che però quelle scene di grande impatto e significato simbolico ci sono, sono girate da Dio, e ficcano pugnalate nelle nostre coscienze. Infatti grazie ai momenti in cui si eleva dai bassi in cui scivola per volare invece molto in alto, come nel caso della storia della giovanissima Eden, cresciuta nella fede assoluta in Gilead, ma cede alla forza del primo amore (il suo personaggio porta il candore dell'innocenza, in una serie che ha sempre diviso i suoi protagonisti in vittime e carnefici, una ventata di freschezza che si chiude con una delle scene più forti di questa stagione) riesce a restare (confermandosi anche tecnicamente, cast, regia e fotografia sono tra i migliori presenti nel panorama televisivo attuale) un prodotto al di sopra della media. Perché The Handmaid's Tale potrà anche inciampare qui e là, farsi prendere dalla foga, perdere ogni tanto la bussola, ma rimane una delle serie tv più coraggiose su piazza, proprio per la volontà di cercare sempre e comunque il significato oltre l'intrattenimento, e la costruzione di un'impalcatura audiovisiva (anche più che narrativa) che regga e rilanci quell'intento culturale e filosofico, impedendogli (quasi sempre) di diventare stucchevole. E insomma The Handmaid's Tale (una serie di donne, ma con due palle così, una serie bella, realizzata benissimo, recitata in modo ottimale, intelligente e, ammettiamolo, di cui avevamo bisogno per farci riflettere su molti temi, che sono più attuali di quanto si possa pensare) supera il difficile esame a cui tutte le serie di successo devono sottoporsi. Dimostrare che quanto di buono mostrato nella prima stagione non era un caso fortunato, ma una dote innata. Ma riuscirci non è stato così semplice come era scontato attendersi. E il finale molto enfatizzato, in cui la protagonista sembra assumere l'identità di una vigilante vendicativa incappucciata, promette svolte inedite nella già confermata terza stagione. Voto: 7,5
La qualità sopraffina della sceneggiatura della prima stagione è irrimediabilmente guastata dalle infelici scelte di accontentare le curiosità della fanbase il che costringe la serie a rallentare spesso perdendosi in strade laterali che non portano da nessuna parte (perché anche se a livello narrativo viene superata quella sensazione di ridondanza presente in precedenza, dopotutto abbiamo imparato a conoscere Gilead, le ancelle e la routine che ne consegue, ed è giusto concentrarsi su i vari elementi e storie, e anche se le emozioni e i momenti di tensione non mancano, con il desiderio di fuga di June sempre ben presente, la visione prosegue con un ritmo compassato). Il maggior numero di flashback e l'introduzione di nuovi personaggi non sempre sono efficaci e, al contrario, vengono sfruttati o troppo poco o troppo in fretta. Un esempio illuminante in proposito è il comandante Lawrence le cui potenzialità (in quanto ideatore del sistema delle Colonie e fortemente anticonformista) vengono sprecate per la fretta di arrivare al season finale. Non a caso la scrittura, al contrario della prima stagione, che era parsa estremamente coerente e coesa, e costruita su uno sviluppo chiaro e limpido dall'inizio alla fine, qui appare palesemente più farraginosa e schizofrenica. Il simbolo del problema può essere il rapporto fra June e Serena, che ha subito così tante giravolte e alti e bassi, da superare di slancio la giustificazione della crescita personale e morale della signora Waterford. Soprattutto, qui e là è apparsa netta la difficoltà nel creare fili narrativi abbastanza solidi fra le diverse scene madri che gli autori avevano palesemente in testa fin dall'inizio. Si pensi soprattutto (come già detto in precedenza) al modo in cui un personaggio potenzialmente spesso come Joseph Lawrence tradisca, sul finale, la sua natura di mero strumento per l'accorata (forse forzata) scena finale. Qualche passo falso insomma, una specie di ansia da prestazione che ha portato a concentrarsi maggiormente su alcune (anzi, parecchie) scene di grande impatto e significato simbolico, sacrificando la fluidità del racconto, un racconto comunque appassionante.
Infatti per quanto in questa stagione non siano mancati azione e colpi di scena, è parso che lungo i 13 episodi la protagonista si trovasse spesso rivivere situazioni già viste, a percorrere strade già battute, a girare e rigirare senza un destino chiaro. E qui però basta con le critiche. Perché se anche tutto quello che ho detto fino ad ora è vero (ammesso e non concesso), rimane il fatto che però quelle scene di grande impatto e significato simbolico ci sono, sono girate da Dio, e ficcano pugnalate nelle nostre coscienze. Infatti grazie ai momenti in cui si eleva dai bassi in cui scivola per volare invece molto in alto, come nel caso della storia della giovanissima Eden, cresciuta nella fede assoluta in Gilead, ma cede alla forza del primo amore (il suo personaggio porta il candore dell'innocenza, in una serie che ha sempre diviso i suoi protagonisti in vittime e carnefici, una ventata di freschezza che si chiude con una delle scene più forti di questa stagione) riesce a restare (confermandosi anche tecnicamente, cast, regia e fotografia sono tra i migliori presenti nel panorama televisivo attuale) un prodotto al di sopra della media. Perché The Handmaid's Tale potrà anche inciampare qui e là, farsi prendere dalla foga, perdere ogni tanto la bussola, ma rimane una delle serie tv più coraggiose su piazza, proprio per la volontà di cercare sempre e comunque il significato oltre l'intrattenimento, e la costruzione di un'impalcatura audiovisiva (anche più che narrativa) che regga e rilanci quell'intento culturale e filosofico, impedendogli (quasi sempre) di diventare stucchevole. E insomma The Handmaid's Tale (una serie di donne, ma con due palle così, una serie bella, realizzata benissimo, recitata in modo ottimale, intelligente e, ammettiamolo, di cui avevamo bisogno per farci riflettere su molti temi, che sono più attuali di quanto si possa pensare) supera il difficile esame a cui tutte le serie di successo devono sottoporsi. Dimostrare che quanto di buono mostrato nella prima stagione non era un caso fortunato, ma una dote innata. Ma riuscirci non è stato così semplice come era scontato attendersi. E il finale molto enfatizzato, in cui la protagonista sembra assumere l'identità di una vigilante vendicativa incappucciata, promette svolte inedite nella già confermata terza stagione. Voto: 7,5
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