Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 21/02/2019 Qui - Sarà che non ricordi bene il film da cui questa serie sembra l'ideale seguito (sono passati trentotto anni e non sapevo manco che sarebbe servito un ripasso), sarà che i nazisti li vedrei sempre morti (qui infatti il nazismo e il conflitto che ha sconquassato il mondo è visto dal punto di vista tedesco, personalmente non proprio così tanto interessante), sarà che non sopporti più (o almeno non sempre) il politicamente corretto (emblematica in tal senso la scelta di mettere forzatamente all'interno di una storia di spie e di guerra l'ennesima storia d'amore gay, anzi lesbo, senza nessun evidente motivo), sarà che avendo odiato Vicky Krieps ne Il filo nascosto non sopporti più la sua presenza, sarà che le serie di produzione Sky (a parte rari esempi) abbiano quasi sempre deluso, ma Das Boot, la serie televisiva franco-tedesca di guerra, sequel del film del 1981 U-Boot 96 di Wolfgang Petersen, ma ambientata un anno dopo gli eventi del film, basata sui romanzi Das Boot e Die Festung di Lothar-Günther Buchheim, andata in onda dal 4 gennaio 2019 su Sky Atlantic e fino a pochi giorni fa, non mi ha convinto, non mi è tanto piaciuta ed anzi, mi ha personalmente deluso. Questo nonostante va detto, la suddetta provenga dal territorio tedesco, patria ultimamente di discrete produzioni internazionali (lo è anche questa, almeno tecnicamente senza dubbio), e nonostante la suddetta aveva dalla sua una storia dalle apparenze tanto interessanti (in alcune parti per esempio davvero riuscito è il soggetto). Che i tempi fossero maturi per la Germania si era già capito nel 2018 grazie a Dark, opera coraggiosa per nulla intimidita dal confronto coi campioni americani, quindi forse le aspettative erano parecchio alte, e non vedendole esaudite abbia io avuto qualche problema, ed abbia più facilmente storto il naso. La serie infatti, che ci porta nel 1942, in piena Seconda Guerra Mondiale, concentrandosi sulla Resistenza francese e al contempo sulla durissima vita dell'equipaggio a bordo del sottomarino tedesco U-612, non era quella eccezionale storia che mi aspettavo, una storia di epiche battaglie, gloriose resistenze e spionaggio internazionale, però qui annacquata e privo di sufficiente mordente.
Elementi che il film invece (soprattutto mordente, coinvolgimento e quant'altro), da noi conosciuto come U-Boot 96, perché come detto la serie è ufficialmente il sequel del film del 1981 (ancora oggi riconosciuto come uno dei migliori film di guerra mai realizzati), allora candidato a ben 6 premi Oscar per merito soprattutto del talento di Wolfgang Petersen, divenuto nel corso dei decenni il regista da disaster movie per antonomasia, aveva quasi sicuramente in abbondanza. Attenzione però, perché la serie in certi frangenti non è da meno (dopotutto i concetti sono i medesimi e sono di grande potenza ed importanza), tuttavia facendo i conti con quel precedente esemplare (c'è da dire che comunque i due universi non si toccano praticamente mai, giacché la storia avviene un anno dopo gli eventi del film originale), lo scarto è abbastanza elevato. Perché la serie, ambientata nel 1942, che si concentra appunto sulla resistenza francese a La Rochelle e sulla difficile vita che affronta un giovane equipaggio a bordo del sommergibile tedesco U 612 in missione in acque nemiche, per via della sua doppia natura, due sono infatti i filoni narrativi principali che si sovrappongono solo idealmente, senza mai intrecciarsi a livello di scene, da una parte abbiamo difatti le disavventure del sommergibile U-612, dall'altra la resistenza impegnata a combattere la guerra contro i nazisti, non sempre riesce a tenere alta l'attenzione, ad appassionare e coinvolgere eccellentemente. In ogni caso senza troppi preamboli (fortunatamente) si comincia con l'inquadratura dall'alto proprio di un sommergibile: un puntino quasi microscopico in un mare sconfinato, a dare fin da subito la misura dell'impotenza umana (questo sì). Il prologo è crudo, atroce, senza speranza (questo sì). Proprio come il comandante tedesco che di lì a pochi minuti condanna a morte per fucilazione un capitano reo di codardia (fa sempre effetto). Ma Das Boot, come già ampiamente affermato, possiede una doppia natura: se da un lato guadagna via via sempre più spazio e importanza la vicenda puramente d'azione (che di azione ne ha ben poca), dall'altro emerge prepotentemente la volontà di dare corpo e anima anche ad una trama parallela votata allo spionaggio (che però è facilmente prevedibile, lenta e confusa spesso).
Entra così in scena, sulla terraferma, la traduttrice Simone Strasser, in contatto coi membri della Resistenza (inizialmente suo malgrado) e sempre più dubbiosa sulla fedeltà al regime nazista. Egli assegnata al comando della Marina Tedesca, lui, il fratello, perché in mezzo a questi due archi narrativi, ci sono le figure dei fratelli Strasser, assegnato (suo malgrado) all'U-612. È proprio questo filone a dare senso compiuto ad un primo episodio (L'incarico) che cerca di gettare generosamente in campo più sollecitazioni possibili, anche per restituire l'idea del caos e della confusione che regnano nel sistema militare. I dialoghi, gli sguardi e la sottile tensione degli eventi che si succedono a La Rochelle (ultima roccaforte francese a essere liberata dall'occupazione, vedremo i nazisti comandare per altri anni ancora) e nelle segrete stanze del potere funzionano alla perfezione (più o meno, miglioreranno però e fortunatamente via via, ma stereotipi, cliché e il politicamente corretto non mancheranno purtroppo), mentre paradossalmente le sequenze marittime (perlomeno nei primissimi episodi, ma anche tutti gli altri, che soccombono ad una narrazione anch'essa piena di cliché) procedono con maggiore incertezza, risultando per lo spettatore meno coese e persino meno interessanti. Si capisce che il compito del regista viennese Andreas Prochaska (ex montatore di Michael Haneke, autore di Funny Games, 1997, e di Il nastro bianco, 2009) non è per nulla facile: occorre stimolare la visione e la curiosità attraverso una ricostruzione storica articolatissima, fondendo e rendendo il più possibile fluide situazioni narrative agli antipodi: da un lato la grande verbosità della spy story, che permette di approfondire i caratteri e le sfaccettature dei personaggi, e dall'altro il moto perpetuo della guerra e delle missioni sott'acqua, in cui spesso si lotta contro un nemico invisibile o contro i propri demoni interiori. Nel corso degli otto episodi che compongono la prima stagione viviamo quindi l'evolversi di due vicende che si sviluppano contemporaneamente su terra e su mare. Un rischio, quello corso dagli sceneggiatori, che poteva portare a un netto sbilanciamento di una o dell'altra vicenda, e infatti, sempre personalmente parlando, è stato così, o insomma, perché in verità né una né l'altra riesce a convincere del tutto.
Perché certo, la serie è comunque brava a riprendere alcuni dei concetti che avevano reso incredibile il lungometraggio, la parte sull'U-Boot è infatti dannatamente claustrofobica, nelle inquadrature di quei cunicoli si può respirare il gasolio, l'umidità e il sudore dei sommergibili, si possono percepire le condizioni che i marinai spesso erano costretti a sopportare, ma più di ogni altra cosa, un perfetto spaccato umano e apolitico sulla paura del singolo di fronte al conflitto, e sulla necessità di dover portare avanti una guerra che, probabilmente, non appartiene a nessuno di quei marinai, perché certo, non male affatto è vedere (purtroppo in quel periodo era così) la controparte più spietata e conosciuta del terzo Reich, quella violenta e oppressiva impersonata da Hagen Forster e da quella Repubblica di Vichi, piegata al volere hitleriano (qui si districa la giovane Simone che, per aiutare il fratello e la sua famiglia, si troverà a convivere tra due fuochi piuttosto pericolosi: Reich e resistenza), perché certo, particolarmente riuscita è la parte tecnica, sigla, colonna sonora, fotografia e scenografie, non dimenticando la scelta del cast (formato da attori riconoscibili ma non affermatissimi), a parte la Krieps tutti spiccano in modo decente, da Lizzy Caplan a James D'Arcy (quest'ultimo troppo poco utilizzato), da Rainer Bock (Storia di una ladra di libri) e da Vincent Kartheiser (Mad Men), però l'obiettivo di Das Boot, rendere protagonista la Storia, con tutte le sue storture e i suoi insegnamenti, non è del tutto centrato. E tuttavia la serie, già rinnovata per una seconda stagione, in tal senso è nell'ultima puntata che finalmente succede qualcosa di parecchio interessante, qualcosa che fa paradossalmente ben sperare nella successiva serie di puntate, può soddisfare (senza aspettarsi troppo, non fate come me) sia il pubblico amante degli intrighi internazionali alla John Le Carré che quelli desiderosi di un "alleggerimento" action (vagamente nostalgico) che omaggi i vari Caccia a Ottobre Rosso (1990) e U-Boot 96 (riferimento dichiarato). Il tutto con un'estetica moderna, quasi debitrice del Dunkirk nolaniano, ammesso che si riesca ad accettare un po' di retorica qua e là, e di prevedibilità qui e lì. Perché va bene che raro è vedere raccontare il nazismo e i suoi abomini dal punto di vista dei tedeschi, va bene che importante è mostrare la disperazione, la solitudine e la disfatta dell'essere umano costretto a combattere contro se stesso, nel nome di un ideale che (per tutti) si tramuta in battaglia per la sopravvivenza e annullamento della personalità, ma che l'avesse fatto in modo più dinamico e meno prevedibile. Voto: 5,5
Entra così in scena, sulla terraferma, la traduttrice Simone Strasser, in contatto coi membri della Resistenza (inizialmente suo malgrado) e sempre più dubbiosa sulla fedeltà al regime nazista. Egli assegnata al comando della Marina Tedesca, lui, il fratello, perché in mezzo a questi due archi narrativi, ci sono le figure dei fratelli Strasser, assegnato (suo malgrado) all'U-612. È proprio questo filone a dare senso compiuto ad un primo episodio (L'incarico) che cerca di gettare generosamente in campo più sollecitazioni possibili, anche per restituire l'idea del caos e della confusione che regnano nel sistema militare. I dialoghi, gli sguardi e la sottile tensione degli eventi che si succedono a La Rochelle (ultima roccaforte francese a essere liberata dall'occupazione, vedremo i nazisti comandare per altri anni ancora) e nelle segrete stanze del potere funzionano alla perfezione (più o meno, miglioreranno però e fortunatamente via via, ma stereotipi, cliché e il politicamente corretto non mancheranno purtroppo), mentre paradossalmente le sequenze marittime (perlomeno nei primissimi episodi, ma anche tutti gli altri, che soccombono ad una narrazione anch'essa piena di cliché) procedono con maggiore incertezza, risultando per lo spettatore meno coese e persino meno interessanti. Si capisce che il compito del regista viennese Andreas Prochaska (ex montatore di Michael Haneke, autore di Funny Games, 1997, e di Il nastro bianco, 2009) non è per nulla facile: occorre stimolare la visione e la curiosità attraverso una ricostruzione storica articolatissima, fondendo e rendendo il più possibile fluide situazioni narrative agli antipodi: da un lato la grande verbosità della spy story, che permette di approfondire i caratteri e le sfaccettature dei personaggi, e dall'altro il moto perpetuo della guerra e delle missioni sott'acqua, in cui spesso si lotta contro un nemico invisibile o contro i propri demoni interiori. Nel corso degli otto episodi che compongono la prima stagione viviamo quindi l'evolversi di due vicende che si sviluppano contemporaneamente su terra e su mare. Un rischio, quello corso dagli sceneggiatori, che poteva portare a un netto sbilanciamento di una o dell'altra vicenda, e infatti, sempre personalmente parlando, è stato così, o insomma, perché in verità né una né l'altra riesce a convincere del tutto.
Perché certo, la serie è comunque brava a riprendere alcuni dei concetti che avevano reso incredibile il lungometraggio, la parte sull'U-Boot è infatti dannatamente claustrofobica, nelle inquadrature di quei cunicoli si può respirare il gasolio, l'umidità e il sudore dei sommergibili, si possono percepire le condizioni che i marinai spesso erano costretti a sopportare, ma più di ogni altra cosa, un perfetto spaccato umano e apolitico sulla paura del singolo di fronte al conflitto, e sulla necessità di dover portare avanti una guerra che, probabilmente, non appartiene a nessuno di quei marinai, perché certo, non male affatto è vedere (purtroppo in quel periodo era così) la controparte più spietata e conosciuta del terzo Reich, quella violenta e oppressiva impersonata da Hagen Forster e da quella Repubblica di Vichi, piegata al volere hitleriano (qui si districa la giovane Simone che, per aiutare il fratello e la sua famiglia, si troverà a convivere tra due fuochi piuttosto pericolosi: Reich e resistenza), perché certo, particolarmente riuscita è la parte tecnica, sigla, colonna sonora, fotografia e scenografie, non dimenticando la scelta del cast (formato da attori riconoscibili ma non affermatissimi), a parte la Krieps tutti spiccano in modo decente, da Lizzy Caplan a James D'Arcy (quest'ultimo troppo poco utilizzato), da Rainer Bock (Storia di una ladra di libri) e da Vincent Kartheiser (Mad Men), però l'obiettivo di Das Boot, rendere protagonista la Storia, con tutte le sue storture e i suoi insegnamenti, non è del tutto centrato. E tuttavia la serie, già rinnovata per una seconda stagione, in tal senso è nell'ultima puntata che finalmente succede qualcosa di parecchio interessante, qualcosa che fa paradossalmente ben sperare nella successiva serie di puntate, può soddisfare (senza aspettarsi troppo, non fate come me) sia il pubblico amante degli intrighi internazionali alla John Le Carré che quelli desiderosi di un "alleggerimento" action (vagamente nostalgico) che omaggi i vari Caccia a Ottobre Rosso (1990) e U-Boot 96 (riferimento dichiarato). Il tutto con un'estetica moderna, quasi debitrice del Dunkirk nolaniano, ammesso che si riesca ad accettare un po' di retorica qua e là, e di prevedibilità qui e lì. Perché va bene che raro è vedere raccontare il nazismo e i suoi abomini dal punto di vista dei tedeschi, va bene che importante è mostrare la disperazione, la solitudine e la disfatta dell'essere umano costretto a combattere contro se stesso, nel nome di un ideale che (per tutti) si tramuta in battaglia per la sopravvivenza e annullamento della personalità, ma che l'avesse fatto in modo più dinamico e meno prevedibile. Voto: 5,5
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