Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 04/01/2019 Qui - Come ben tutti sanno la produzione della sesta ed ultima stagione di House of Cards è stata dilaniata dallo scandalo sessuale di Kevin Spacey. Il protagonista maschile principale è stato infatti fatto fuori dalla serie, che però per questo perde di carisma ed è vittima della produzione, essendo stata costretta a riscrivere in fretta e furia tutta la storia. Difatti, la produzione era già in corso quando lo scandalo è scoppiato, pertanto tutta la storyline è stata modificata per eliminare Frank Underwood dalla storia. Tale cambiamento ha portato ad un accentramento della storia attorno a Claire, protagonista femminile che si ritrova padrona assoluta della scena. Purtroppo però, questo repentino ri-modellamento, non ha portato nessun beneficiò e perciò la sesta ed ultima stagione si rivela la più brutta dell'intera serie. Si perché tutti i timori che avevano accompagnato la produzione (ovvero se sarebbe riuscita a sopravvivere senza la sua punta di diamante) si sono rivelati tutti. Non è bastata neanche Robin Wright infatti a tenere in piedi la baracca, nonostante si era sperato che lei ci riuscisse, perché le capacità le ha e le ha sempre avute, ma nulla ha potuto fare senza una base, senza una sceneggiatura all'altezza. Ognuno dei coinvolti nella produzione ce l'ha messa tutta per restituire ai fan qualcosa che nel bene o nel male rendesse giustizia alla serie, ma risulta evidente quanto quest'impresa sia stata un orbitare attorno al buco nero lasciato da Spacey senza precipitarci dentro. Sceneggiatori e registi hanno dovuto affrontare una sfida senza precedenti e di questo bisogna rendergli atto, ma non puoi fare una stagione di House of Cards senza Frank e il tentativo di sminuire l'importanza del personaggio denigrandolo in più passaggi o standoci a debita distanza non fanno altro che fomentare l'opinione di coloro che vedono nella sua assenza il punto debole della stagione. Perché certo, la scelta di Netflix di escludere Kevin Spacey è stata encomiabile, ma gli si è rivoltata contro, visto il pessimo prodotto confezionato. Sarebbe stato più idoneo cancellare l'intero show e finire con il colpo finale della quinta stagione (qui). Sarebbe stato un finale migliore rispetto a quello presentato in quest'ultima. Un finale purtroppo rivelatosi amaro. Infatti, della forza e dell'impatto delle prime stagioni (coadiuvate anche dalla mano di David Fincher) non è rimasta nessuna traccia. Ciò che è rimasto è l'affetto per i personaggi principali che sono gravitati nella trama dei coniugi Underwood, tutto il resto è però noia.
Non è un caso che la prima, disarmante impressione percepibile durante la visione di questa sesta stagione di House of cards coincida con la mestizia e l'evidente irrequietezza (e, quindi, confusione) con le quali lo showrunner Beau Willimon e gli sceneggiatori sviluppano gli eventi narrati: il defunto presidente Frank Underwood (morto in circostanze più o meno misteriose) è un fantasma che aleggia tra i corridoi della Casa Bianca e nelle coscienze dei pedoni in gioco, mossi con straniante disinvoltura da sua moglie Claire (algida e letale Robin Wright), ora presidente a tutti gli effetti, tramutata in una brutta copia del personaggio-Underwood, perché sovraccaricata di abilità mai pienamente (di)mostrate, in un passaggio di testimone forzato e indesiderato nella sua esplicita arroganza di volere e dovere sostituire un protagonista unico nel suo genere. Frank è infatti ovunque, in ogni dialogo, in ogni scena, in ogni riferimento, ed è inevitabile, non si può scardinare l'intera struttura narrativa di un ciclo basato interamente sull'importanza dell'ex presidente e tentare di farlo (tanto più omettendo perfino il volto di Spacey nei passaggi in cui i riferimenti fisici a Frank vengono inquadrati) compromette definitivamente ogni tentativo di esaltare Claire come forza trainante della stagione. Nulla può quindi l'impegno degli sceneggiatori contro una lacuna enorme, che viene ulteriormente allargata dalla comparsa improvvisa di nuove dinamiche e nuovi personaggi giunti nella trama come un fulmine a ciel sereno, senza preavviso e senza giustificazione. I collegamenti col passato dei protagonisti (che spesso sono i lati oscuri che arricchiscono l'intrigo di House of Cards) sono oramai assenti. Ci si trova di fronte ad una stagione che più che una chiusura sembra una piccola parentesi, uno spin-off o un sequel alternativo della saga principale, con dinamiche apprezzabili solo se accettate come a loro stanti e non facenti parte di una trama più complessa e lunga sei stagioni. Una stagione che nonostante la bravura della (nuovamente) ottima Robin Wright, ha notevoli difetti: tra notevoli digressioni, buchi temporali e una storia caotica e raffazzonata. Perché inutile girarci intorno, la perdita di Spacey ha decretato insomma la fine dell'epopea sulla satira del potere. Questa nuova stagione puntata tutto sul femminismo, sulla forza delle donne senza proporre una storia ben congegnata e con uno sviluppo narrativo ben definito, anzi, proponendo invece una sceneggiatura ipercinetica e, spesso, inverosimile.
Alla fine, anche le sotto-trame femministe, convergono in soliti cliché e stereotipi. Le donne sono sempre costrette a "mostrare gli attributi" per essere ascoltate e accettate. Vero che i protagonisti "giocano a carte" e hanno capacità manipolative e perciò questo espediente narrativo agisce in maniera ambigua in quanto la donna è consapevole di tale stereotipo e quindi lo rigira a proprio favore. Il femminismo viene perciò usato per veicolare un messaggio di uguaglianza per mostrare che anche le donne posso essere ambizione, crudeli e diaboliche come gli uomini. Ma era davvero necessario? Forse no, perché purtroppo questo gioco al massacro, autoindotto e crudele (forse colpa del pattume mediatico), macchia indelebilmente uno show che era riuscito a costruire un meritato successo avvalendosi di una scrittura complessa e brillante, pur sempre attuale, forse a volte destabilizzante perché troppo ambiziosa, ma non per questo mai priva di quel fascino che solo le grandiose opere cult riescono a irradiare. A comprovarne la malsana gestione in fase di scrittura, si addiviene a un finale distorto, impropriamente didascalico e chiuso nel peggiore dei modi: tronco, spento e raffazzonato. Ma non è tutto, perché in questa stagione, una stagione che tecnicamente perde quasi tutto il suo stile unico, diventando una versione semplificata del suo splendore (come se un modellino del Partenone venisse fotografato e spacciato per il tempio originale) anche la regia (un tempo mastodontica, classica, granitica) non è all'altezza, poiché essa non raggiunge più il virtuosismo che anche la stessa Robin Wright ha saputo raggiungere dietro la macchina da presa, risultando perciò scremata, poco incalzante, costretta ad assumere gli stilemi fondamentali di House of Cards senza però una valida base narrativa sulla quale adagiare dei tocchi visivi di prima categoria, come avveniva nelle stagioni precedenti. Certo, i personaggi sono ancora magnifici, siamo profondamente legati ad ognuno di loro e gli interpreti sono sempre all'altezza della situazione, ma devono scontrarsi con la realtà dei fatti che ha sgretolato l'intera stagione e patire l'assenza di Spacey. Robin Wright prima di tutti fornisce al pubblico un'interpretazione eccellente, degna del suo personaggio, così come Michael Kelly e i membri anziani del cast (tra questi Patricia Clarkson). Claire è quella che deve portare la croce maggiore, caricandosi sulle spalle la responsabilità del successo di una stagione nata morta.
Una stagione che non le rende giustizia come lei meriterebbe, all'apice delle sue abilità professionali disgraziatamente sminuite dalle scelte di Netflix. A produzione in corso l'attrice aveva annunciato il suo ritiro dalle scene e non possiamo biasimarla per la scelta, complimentandoci per il tempismo perfetto che le ha permesso di uscire di scena a seguito di una stagione che ha dato prova del suo talento, totalmente ininfluente sull'insuccesso dell'ultima stagione. I nuovi acquisti di House of Cards, i fratelli Shepherd, sono degli ottimi personaggi, tenuti in vita da degli eccellenti interpreti, ma non possono essere giudicati come dei profili a tutto tondo, sebbene di fatto tengano in piedi l'intera stagione. Greg Kinnear è la sorpresa migliore regalataci da Netflix, che scegliendo accuratamente l'interprete di Bill e mette un tampone alla carenza di interpreti principali di alto livello (eccetto Wright) e la sua prova nei panni del magnate cospiratore è una delle poche cose che creino interesse nello spettatore, che almeno in questo caso può godersi qualcosa di nuovo e davvero godibile. Percorso pressoché analogo per Diane Lane nei panni della sorella Annette, ennesimo collegamento col defunto presidente che spunta dando filo da torcere a Claire iniziando una competizione femminile dalle trame a volte fin troppo da salotto. Elementi che sovrapposti uno sull'altro creano una stratificazione superficiale della trama per nulla paragonabili alle macchinazioni di Frank per annientare i suoi nemici, messe in atto grazie all'aiuto del suo braccio destro infallibile, Doug Stamper, che chiude i conti in House of Cards nel modo più deplorevole. E a conti fatti purtroppo il bilancio finale di questa stagione è triste e fa molto, molto male. Termina infatti così, con una parabola esponenziale discendente, con un tradimento, una coltellata nella penombra della stanza, l'epopea seriale di House of Cards, uno show originale che rimarrà un cult nel panorama televisivo. La satira sul potere e sulle macchinazioni degli uomini al potere si è esaurita, senza mostrare il "canto del cigno". Senza sparare le ultime cartucce. Tuttavia, lo show aveva già detto tutto ciò che poteva esternare ed era in fase "di picco" da un po'. Quindi, sotto certi aspetti, House of Cards si è spento senza clamore, seguendo il proprio percorso naturale. Quest'ultima stagione non cancellerà i bei momenti televisivi di alcuni episodi, tuttavia, da appassionato, è triste far notare il declino repentino di uno show amato. Voto: 5
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