domenica 2 giugno 2019

American Horror Story: Cult (7a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 07/02/2018 Qui - American Horror Story ha avuto un innegabile effetto nella Tv degli ultimi dieci anni, in particolare per essere stata una delle prime serie antologiche e per aver riportato in televisione Jessica Lange. Inutile negare però che dopo Asylum (la migliore della saga) qualcosa si è rotto, le trame e i personaggi sono diventati ripetitivi fino a Hotel e Roanoke in cui si susseguivano solo una serie di immagini d'impatto a caso. Questa settima stagione di American Horror Story poteva quindi segnare la svolta per la serie, ma se avviene, lo fa in negativo, giacché gli anni e la scarsità di idee si fanno pesantemente sentire. Anche perché American Horror Story: Cult si è rivelata l'ennesima deludente stagione, una stagione che, seppur intrigante, è cominciata come macabra parodia di un evento da tutti scongiurato ed è divagata in un'insensata analisi del fenomeno delle sette nella recente storia americana (Evan Peters finisce addirittura e ridicolmente con l'impersonare perfino Andy Warhol, Marshall Applewhite, David Koresh, Jim Jones, Charles Manson e Gesù). Senza dimenticare che gli avvenimenti vengono prevedibilmente riproposti sotto forma di cliché per accumulo, dato che già dal primo episodio si capisce che vedremo qualcosa di già visto e assisteremo spesso a lamenti di Sarah Paulson, perdendo così l'opportunità di poter sviscerare con perizia le nuove fobie della moderna borghesia americana. Poiché reduce dal ben poco riuscito Roanoke, con CultAmerican Horror Story decideva di puntare (furbescamente e in modo geniale, dopotutto Ryan Murphy di certo lo è) sull'attualità (la vittoria a sorpresa di Donald Trump nel novembre 2016) e sull'analisi di una società dilaniata da tensioni, rabbia repressa, paura e isteria, e il primo episodio, incentrato sulla fobia per i clown, ci regalava diverse buone premesse. A dieci puntate di distanza, purtroppo, la fiducia nei confronti degli showrunner, compreso Brad Falchuk, è andata dissipandosi di settimana in settimana, di puntata in puntata.
Infatti, episodio dopo episodio, lo sviluppo narrativo di questa settima stagione di American Horror Story si dimentica colpevolmente di quanto preannunciato per proseguire, alla deriva, verso tutt'altra direzione, il ruolo di Kai Anderson (il personaggio centrale) riflette (banalmente, anche perché non c'era bisogno dell'ennesimo personaggio con problemi mentali che ha allucinazioni sessuali malate) quello di un novello Charles Manson, leader di una setta di fanatici con l'obiettivo di rovesciare e annullare lo status quo della moderna società americana, distruggendo in primis il valore femminile all'interno della società stessa (tema quello del femminismo mal sfruttato e sviluppato peggio). Svaniscono così di colpo compromessi e ambizioni, lasciando la parola a personaggi confusi e imbambolati al cospetto di un intreccio spesso corretto dall'utilizzo di sgradevoli flashback costruiti come deus ex machina, con il solo scopo di voler giustificare un cambio di rotta mai così deciso e straniante. D'altronde Cult (che poteva far pensare alle paure ancestrali dell'uomo ma in verità tratta del culto, la setta e la devozione spietata, tematiche già sfiorate in altre stagioni), contrariamente alle stagioni di AHS precedenti, non ha avuto a che fare con l'horror praticamente mai, se non nei primissimi episodi. Questa stagione si è infatti concentrata su una trama squisitamente (e convenzionalmente) thriller, per non dire da film d'azione, che niente ha a che vedere con le streghe di Coven, i freaks del circo di Freakshow o ancora i fantasmi di Murder House.
Insomma tutto già visto, tutto scontato, seppur fatto meglio. Ma se fosse solo questo non importerebbe, il problema di questa settima stagione non risiede solo in questa sostanziale crisi d'ispirazione, che lo porta a rielaborare senza troppa inventiva i modelli delle stagioni precedenti, il suo difetto più grave è appunto, e come detto, l'incapacità di sviluppare un intreccio davvero accattivante e dotato di un'effettiva coerenza interna. Nel corso di Cult, del resto, si sono sprecate le forzature, le ridondanze, i twist troppo repentini e improbabili per ottenere una sospensione dell'incredulità, e a risentire di una scrittura mediocre sono stati i personaggi stessi, dalle incongruenze della trasformazione (talmente radicale da risultare priva di ogni possibile verosimiglianza) di Ally che, da donna fragile in preda a nevrosi e insicurezze paralizzanti, diventa in poco tempo una fredda e astuta calcolatrice in grado addirittura di uccidere a sangue freddo, fino alla costante svalutazione (di un personaggio, e di un attore, ingiusta e ingiustificata) delle potenzialità di Kai, che si riduce al classico schizofrenico. Il suo personaggio infatti (costantemente in bilico tra quello di un formidabile genio del crimine e un irascibile psicopatico alle soglie della macchietta), nato come costola di un elettore medio di Trump, evolutosi nella direzione di leader carismatico e manipolatore che sfugge ad ogni tentativo di etichettatura, diviene (in modo alquanto prevedibile) un folle irrazionale con manie di grandezza.
Ma c'era da aspettarselo, dopotutto l'ultimo episodio (senza colpi di scena imprevedibili e che porta rapidamente a conclusione le vicende della setta di assassini capitanata dal folle Kai Anderson), forse più di ogni altro episodio precedente, ha chiuso la serie nel modo più prevedibile possibile (anche se era forse l'unica scelta possibile concludere il tutto così, giacché in un mondo, fin troppo, reale era logico che si chiudesse con la sconfitta del cattivo e la vittoria dei buoni, anche se questi ultimi, come spesso accade, nascondono molti più lati oscuri di quanto possiamo credere), con il lieto fine supportato da cliffhanger già visto e rivisto in mille occasioni. Tuttavia, nonostante l'ultimo episodio, che mantiene comunque altissima la tensione narrativa, Cult resta un prodotto godibile e una discreta conclusione di una stagione comunque (registicamente) ben fatta, seppur non a livello delle migliori. Anche perché poteva andare peggio, poiché come detto, una serie di incoerenze e di aspetti trattati poco e male fanno storcere la bocca per una settima stagione "incompleta", perché, semplicemente, alcune cose sono state gestite veramente male, dal punto di vista della trama. La sospensione dell'incredulità che Ryan Murphy infatti ci chiede praticamente in ogni stagione di American Horror Story, qui è doppiamente necessaria, perché le incoerenze di trama ci sono eccome.
Ritornando difatti all'ultima puntata (diretta dalla "figlia d'arte" Jennifer Lynch, e in cui essa ha tentato di recuperare gli elementi politici già presenti nella première senza riuscirci), ci si rende conto dei difetti e dei limiti di una stagione comunque minimamente sufficiente che conferma purtroppo però l'impasse creativa di quella che, è (stata) una delle serie più innovative e coinvolgenti degli ultimi tempi, ma che pian piano va sempre più in declino. Perché certo, tornare agli antichi fasti, lo sappiamo, è impossibile, ma andare avanti con la consapevolezza di non avere più lo smalto e il mordente di un tempo è un'operazione che può avere senso solo considerato il fatto che ormai la Serie è stata rinnovata per altre due stagioni. Ma in questa sufficienza risicata c'è un po' di amarezza, un po' di sollievo, tanto rimpianto e tanta rabbia, per quella che poteva essere la stagione della svolta e si è rivelata essere la stagione che, dopo un inizio in quinta, ha improvvisamente tirato il freno a mano, arrestandosi bruscamente sulla soglia della sufficienza. Sufficienza raggiunta grazie soprattutto ai suoi due incontrastati mattatori, Sarah Paulson ed Evan Peters, ovvero i due attori-simbolo di American Horror Story fin dalle origini (e gli unici sempre convincenti, degli altri meglio sorvolare), che riescono a destreggiarsi come meglio potevano fra le lacune di una sceneggiatura quanto mai imperfetta, conferendo più di un barlume di credibilità a una stagione sempre più incerta e zoppicante. Dove non basta l'inquietante "colpo di coda" dell'ultimissima sequenza a sollevare una stagione dove di horror non c'è traccia, se non in pochissime sequenze e dove la noia la fa quasi da padrone. Voto: 6-

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