Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 12/12/2016 Qui - Minority Report (serie tv trasmessa dalla Fox dal 21 settembre al 30 novembre 2015, ideata da Max Borenstein), si preannunciava essere il sequel ideale e costruttivo dell'omonimo film di Steven Spielberg che vedeva in Tom Cruise l'indiscusso protagonista, e invece nonostante il buon incipit e l'idea iniziale di proseguire in modo onesto il cult del 2002, molto e tanto non ha funzionato a dovere, cominciando dalla storyline e il pilot, solo nei primi 15 minuti davvero accattivante, pura gioia per il cuore e l'anima, fantascienza allo stato puro, il resto prevalentemente solo noia e prevedibilità. Questo perché la formula adottata non è stata affatto innovativa, ci sono (come quasi tutte le serie procedurali) dei casi da risolvere (e la componente delle visioni del futuro del protagonista non sono neanche del tutto nuove, visto che esiste già una serie tv, Person of interest, in cui si cercano di prevenire dei crimini) ed i due protagonisti si aiutano l'un l'altra. La storyline perciò, proprio per prevedibilità della trama stessa, banale e non eccezionale, non riesce mai ad arginare e tappare i buchi di una sceneggiatura sciatta e che fa acqua da tutte le parti, soprattutto perché nonostante l'inserimento efficace di aggeggi tecnologici, dialoghi sferzanti e colpi di scena telefonati, proprio in questi particolari, comunque minimamente innovativi, la serie non riesce a decollare e cade in un pantano in cui l'annaspamento era prevedibile. Ma per capire meglio ecco la trama, nel 2065, a Washington, il dipartimento precrimine della polizia, il quale sfruttava le capacità precognitive di tre bambini, definiti precogs, per cercare di impedire il verificarsi di crimini futuri, è ormai chiuso da dieci anni. Uno dei precogs, Dash, tuttavia, ancora tormentato dalle visioni, decide di ritornare a collaborare con la polizia per cercare di impedire gli omicidi di cui viene a conoscenza. Inizia quindi a collaborare con la detective Lara Vega, anche se le sue visioni sono solo frammentarie, essendo la sua abilità condivisa con quella del fratello gemello Arthur, anche lui precog, con il quale non è più in contatto da tempo. Ma dopo varie vicissitudini interne ed esterne, e le solite diatribe, si formerà la squadra che cercherà di salvare la vita dei tre pre-cognitivi dal governo che vorrebbe ri-aprire illegalmente la precrimine, e non è detto che ci riusciranno (sì come no..).
Ma se nella storyline non s'intravedono quindi spunti di innovazione, è però nella costruzione dei due protagonisti e nell'uso degli effetti speciali che Minority Report riesce a incuriosire. Non è molto, in effetti, soprattutto quando si ha a che fare con un poliziesco e le indagini devono sempre avere un determinato percorso narrativo, ma la componente fantascientifica è forse l'unico elemento minimamente salvabile. Lo show è infatti ambientato nel 2065, e gli autori hanno immaginato come sarà New York, il sistema di trasporto pubblico sarà molto efficiente, le case potranno beneficiare delle nuove tecnologie, le comunicazioni saranno all'avanguardia e, soprattutto, anche le indagini faranno uso di strumenti che inevitabilmente richiamano al film e la cui presenza nel telefilm permette al pubblico di trovarsi di fronte ad un'epoca in cui tutto è touch e ciò che usiamo oggi (che sia un iPod o un'applicazione come Tinder) è vintage. Insomma bello e spettacolare, ma se a questo si aggiunge (però come ovvio) la discussione etica di fronte alla possibilità di modificare il futuro con le varie conseguenze del caso, tutto è scontato. In ogni caso, per non sembrare banale, la cosa che riesce a dare quel tocco di originalità alla serie sono due elementi, uno è costituito dai momenti più leggeri che derivano dalle differenze tra la detective Vega e Dash, la prima vuole svolgere il proprio lavoro con concentrazione, ma deve anche preoccuparsi di tenere a bada il collaboratore, non abituato a vivere nella società e, soprattutto, propenso a dare avvertimenti legati anche alle piccole cose che stanno per avvenire. Si crea, così, un mix tra indagini e battute che abbiamo visto in numerose altre serie tv poliziesche e che serve a smorzare la tensione del caso, anche se manca l'empatia a causa di un cast del tutto anonimo ed inespressivo, a parte la sensuale e avvenente Meagan Good (l'unica attrice più o meno conosciuta e minimamente salvabile), e lo stesso storytelling è svogliato e costruito senza una vera cognizione di causa. Insomma non granché, perché dopo aver gustato ed assaporato il pilot, che doveva ma non è stato l'episodio più bello, quello che poteva e doveva costruire le basi per convincere lo spettatore a proseguire nella visione, e invece dopo poco tempo ci si stufa. Minority Report ha dunque peccato d'orgoglio credendo di vincere facile, allorché la presenza come produttore esecutivo proprio di Spielberg, faceva pensare qualcosa di meglio, e invece ci si ritrova davvero di fronte ad un prodotto asettico, senz'anima che non toglie e non aggiunge nulla ad un 'franchise' che era già bello di per se. La serie infatti prende dal film di Spielberg solo i suoi canoni più classici, le atmosfere ed i temi d'interesse comune, il resto è un crime drama come tanti senza né arte né parte. Un peccato perché poteva davvero sorprendere. Francamente evitabile. Voto: 4,5
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