Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 24/04/2016 Qui - House of cards è una delle serie tv più viste degli ultimi anni. Un successo strepitoso, incredibile, senza contare tutti i premi vinti e i giudizi positivi di molte testate giornalistiche e di tutti quelli che non si sono persi una puntata, come me. Anche se la serie viene criticata da molti per essere lenta, noiosa o sopravvalutata, che ha un linguaggio difficile, è comunque imperdibile, soprattutto per la regia cinematografica di tutto rispetto, movimentata e coinvolgente. Non si può effettivamente non amare questo political-drama della Netflix (in Italia anche su Sky Atlantic) arrivata alla quarta stagione, ma soprattutto non si può non amare gli Underwood, spietati, cinici ma giudiziosi, due personaggi di spessore, glaciali, inflessibili e scaltri come nessuno, invincibili e indistruttibili. Soprattutto Frank, l'anima di tutto insieme alla moglie, è un personaggio complesso, difficile da decifrare, ma che nonostante la sua apparente 'malvagità' e voglia di potere, è uno che sa cosa fare, usando trucchetti e mezzucci di ogni tipo riesce sempre a passarla liscia. La serie infatti tratta di temi quali potere, manipolazione e spietato pragmatismo. Quelli che i due usano per arrivare lì dove tutti vorrebbero arrivare. Questa spettacolare quarta stagione è stata veramente entusiasmante, piena di avvenimenti, la storia corre e si rincorre a ritmi velocissimi senza però tralasciare l’elemento della riflessione e della tattica politica che ha sempre caratterizzato la serie. Il finale alquanto scioccante poi è stato fantastico. Comunque prima di parlare di questa incredibile quarta stagione, un piccolo riepilogo, soprattutto per chi non ha visto le prime tre stagioni. La serie, ambientata nell'odierna Washington D.C., segue le vicende di Frank Underwood (Kevin Spacey), un Democratico che da capogruppo di maggioranza della Camera che, dopo essersi visto sottratto il posto da Segretario di Stato che il neopresidente gli aveva promesso, inizia un giro di intrighi per giungere ai vertici del potere americano. La sua fedele (non in tutti i sensi) moglie, Claire Underwood (Robin Wright), lo aiuta nel suo diabolico piano, diabolico per i modi in cui, non proprio del tutto legali, riesce a diventare così potente, tanto da diventare sempre più forte politicamente. Durante il corso degli eventi tanti intralceranno il suo cammino, ma fatti 'fuori' uno dopo l'altro (dalla bella giornalista Zoe, al deputato Russo) quelli che potevano affossarlo, riesce in circostanze alquanto sospette (ordinando un complotto al presidente in carica, tra la 2a e 3a) a diventare addirittura presidente ad interim. Ma dopo che finalmente hanno raggiunto i loro obbiettivi mantenere il posto non sarà facile, tra chi vuole togliergli la poltrona (alle elezioni presidenziali) e chi scoperchiare il vaso, tra cui un ex direttore di una testa giornalistica che sospetta che nasconda qualcosa di losco (come in effetti è), tutto sarà lecito. Frank però ha sempre un piano, una via d'uscita per tutto, dopotutto adesso che è il presidente degli Stati Uniti nessuno può fermarlo o almeno così crede, perché mai come adesso, mai come in questa stagione le sue certezze potrebbero crollare, perdendo qualsiasi cosa, come intravediamo all'inizio e successivamente alla fine delle 13 puntate della quarta stagione.
Puntate in cui assistiamo alla ripresa e soluzione (avvenuta in circostanze drammatiche) della crisi coniugale tra i protagonisti (con tanto di battaglie politiche, che mettono in difficoltà il marito, costringendolo a incassare colpi tremendi), al dispiegamento del tema delle elezioni (in corsa alle primarie contro un'avversaria la Heather Dunbar, veramente tosta), abbiamo un attentato, la crisi russa, il fondamentalismo islamico e l’inchiesta giornalistica, tutti argomenti che da soli avrebbero potuto sorreggere una stagione e che invece si incastrano alla perfezione, senza risultare ridondanti o poco credibili. Una stagione dove la lotta per il Potere diventa ancor più efferata: una logorante partita senza più regole morali e a cui pretendono di giocare "nuovi" spietati concorrenti. Non solo la Dunbar, ma anche Claire stessa, senza dimenticare la Durant (segretario di Stato), ma soprattutto un nuovo difficile avversario, il candidato repubblicano Conway (personaggio sicuramente di spicco di questa stagione) interpretato da Joel Kinnaman, che ha un modo diverso di fare politica, old school Frank e Claire, che risolvono tutto dietro le quinte, moderni e inclini alla spettacolarizzazione i Conway, che comunicano con Instagram e streaming sul web, non sarà quindi facile. A metà stagione, però, un twist spiazzante rimescola le carte in tavola. Frank è vittima di un attentato, nel quale muore anche l’amato Meechum, il figlio (incestuoso) che gli Underwood non hanno mai avuto. In quel momento Claire diventa esattamente il partner perfetto: dà prova di destreggiarsi con la politica internazionale (fitto e cupo il negoziato con Petrov/Putin per gli accordi sul petrolio) e ritorna ufficialmente partner di Frank. E Frank dal canto suo, fra un’allucinazione onirica e l’altra, sul letto d’ospedale decide di non combattere più la First Lady ma di farsela vera alleata, con parità di diritti. I due infatti ritornano insieme, ma con nuove regole, entrambi godono degli stessi poteri e giocano affinché l’altro raggiunga ciò che desidera: per Frank la presidenza, per Claire la vice-presidenza. Da qui la quarta stagione di House of Cards mette il turbo: gli Underwood insieme fanno quello che gli riesce meglio, manipolare e far girare le cose al loro piacimento.
Nell'ultima parte di stagione però entra di prepotenza lo spettro del terrorismo: l'Isis diventa l'Oci e gli attentati europei si tramutano nel rapimento di una famiglia americana da parte dei fondamentalisti islamici occidentali convertiti. Non bastasse, in sottofondo uno scandalo giornalistico che riporta in vita lo spettro di Zoe e dei sotterfugi per arrivare alla Casa Bianca, rischia di cancellare tutto l’operato degli Underwood. Ma è proprio qui che Claire ha l’illuminazione: basta cercare di conquistare il cuore delle persone. Se non con l'amore, sarà con il terrore che si vinceranno le elezioni. Solo così facendo gli Underwood si dimostreranno indispensabili. E allora l'esecuzione, da parte dei fondamentalisti, dell'unico ostaggio rimasto nelle loro mani diventa un mezzo potentissimo per far sì che l'elettorato si affidi all'uomo che annuncia in televisione chiaro e tondo: "Siamo in Guerra". Qui si gioca la partita degli Underwood, perché una delle poche politiche che non li ha mai ripagati veramente è quella del consenso pubblico: ed è lì allora che i protagonisti tornano ad essere quelli della prima stagione, spietati e senza nessun timore di sfruttare le paure altrui. E l'effetto è sicuramente quello desiderato, perché il finale di quarta stagione è proprio quello che dovrebbe essere: finalmente anche Claire sfonda la quarta parete con il marito Frank e ci lascia con la spasmodica voglia di scoprire quali saranno i risvolti della politica del terrore della quinta stagione, già confermata ovviamente. House of cards quest'anno però al contrario degli anni passati e dello scorso anno dove si era praticamente fermata, per esplorare maggiormente il personaggio di Claire e aveva dovuto fare i conti con una storia non di conquista del potere ma bensì di mantenimento di esso, ha un ritmo diverso ed è proprio grazie alla figura di Claire Underwood che ciò appare chiaro. Robin Wright, che dirige ben tre episodi quest'anno, è superlativa, la sua performance è meravigliosa, il personaggio di Claire è completo, ha tutte le sfumature che erano appena accennate gli anni scorsi ed è adesso, dopo il finale, al pari se non al di sopra del protagonista. La serie, come Claire, dimostra di saper sopravvivere anche senza Kevin Spacey che per due episodi circa compare meno, ma l’azione va avanti si evolve e la tensione non si abbassa e così Claire dimostra di poter piegare al suo volere capi di stato, avversari politici e il presidente degli Stati Uniti d'America. La quarta stagione ha osato ancora di più, introducendo scene oniriche, rubinetti che versano sangue, dialoghi ambigui, svolte inaspettate dei protagonisti (Michael Kelly, Mahershala Ali, Gerald McRaney) e frasi ciniche ed estreme. Tutto ciò avrebbe potuto portare la serie sull'orlo della pagliacciata, dell'esagerazione fine a se stessa, ma grazie alla sceneggiatura sapiente e l'adrenalina che non cala mai per tredici ore filate, non è così. Questa quarta stagione soprattutto però, richiama tantissimi temi della prima, chiudendo trame iniziate quattro anni fa ma in modo ancora più estremo. Ritroviamo Peter Russo e Zoe Barns, ma i cameo non sembrano fuori luogo, anche il rapporto di ferro tra Frank e Claire ricorda quello della prima stagione ma è mutato, i due infatti non sono più marito e moglie o presidente e first lady, bensì una cosa sola, un unicum. Ed è proprio nell'ultimo episodio che ci rendiamo conto di ciò, ma soprattutto che House of Cards si candida a miglior serie dell’anno. Una serie che se parlasse direbbe: "siamo una serie cattiva, i protagonisti non sono positivi, non abbiamo niente di convenzionale eppure volete guardare lo stesso". Ha ragione, è difficile distaccarsi. io certamente continuerò a vederla, per molti aspetti e certe scene, scene in cui non sai mai cosa potresti vedere o cosa potrebbe accadere, quando tutto sembra finito l'intuizione o mossa giusta per girare il coltello dalla parte del manico, i primi piani di Frank poi sono così incredibili e spettacolari, e poi in fin dei conti mi diverto troppo quando riescono sempre ogni volta a vincere, che sia una guerra, un diverbio o affari, la spuntano sempre inevitabilmente. Voto: 7
Puntate in cui assistiamo alla ripresa e soluzione (avvenuta in circostanze drammatiche) della crisi coniugale tra i protagonisti (con tanto di battaglie politiche, che mettono in difficoltà il marito, costringendolo a incassare colpi tremendi), al dispiegamento del tema delle elezioni (in corsa alle primarie contro un'avversaria la Heather Dunbar, veramente tosta), abbiamo un attentato, la crisi russa, il fondamentalismo islamico e l’inchiesta giornalistica, tutti argomenti che da soli avrebbero potuto sorreggere una stagione e che invece si incastrano alla perfezione, senza risultare ridondanti o poco credibili. Una stagione dove la lotta per il Potere diventa ancor più efferata: una logorante partita senza più regole morali e a cui pretendono di giocare "nuovi" spietati concorrenti. Non solo la Dunbar, ma anche Claire stessa, senza dimenticare la Durant (segretario di Stato), ma soprattutto un nuovo difficile avversario, il candidato repubblicano Conway (personaggio sicuramente di spicco di questa stagione) interpretato da Joel Kinnaman, che ha un modo diverso di fare politica, old school Frank e Claire, che risolvono tutto dietro le quinte, moderni e inclini alla spettacolarizzazione i Conway, che comunicano con Instagram e streaming sul web, non sarà quindi facile. A metà stagione, però, un twist spiazzante rimescola le carte in tavola. Frank è vittima di un attentato, nel quale muore anche l’amato Meechum, il figlio (incestuoso) che gli Underwood non hanno mai avuto. In quel momento Claire diventa esattamente il partner perfetto: dà prova di destreggiarsi con la politica internazionale (fitto e cupo il negoziato con Petrov/Putin per gli accordi sul petrolio) e ritorna ufficialmente partner di Frank. E Frank dal canto suo, fra un’allucinazione onirica e l’altra, sul letto d’ospedale decide di non combattere più la First Lady ma di farsela vera alleata, con parità di diritti. I due infatti ritornano insieme, ma con nuove regole, entrambi godono degli stessi poteri e giocano affinché l’altro raggiunga ciò che desidera: per Frank la presidenza, per Claire la vice-presidenza. Da qui la quarta stagione di House of Cards mette il turbo: gli Underwood insieme fanno quello che gli riesce meglio, manipolare e far girare le cose al loro piacimento.
Nell'ultima parte di stagione però entra di prepotenza lo spettro del terrorismo: l'Isis diventa l'Oci e gli attentati europei si tramutano nel rapimento di una famiglia americana da parte dei fondamentalisti islamici occidentali convertiti. Non bastasse, in sottofondo uno scandalo giornalistico che riporta in vita lo spettro di Zoe e dei sotterfugi per arrivare alla Casa Bianca, rischia di cancellare tutto l’operato degli Underwood. Ma è proprio qui che Claire ha l’illuminazione: basta cercare di conquistare il cuore delle persone. Se non con l'amore, sarà con il terrore che si vinceranno le elezioni. Solo così facendo gli Underwood si dimostreranno indispensabili. E allora l'esecuzione, da parte dei fondamentalisti, dell'unico ostaggio rimasto nelle loro mani diventa un mezzo potentissimo per far sì che l'elettorato si affidi all'uomo che annuncia in televisione chiaro e tondo: "Siamo in Guerra". Qui si gioca la partita degli Underwood, perché una delle poche politiche che non li ha mai ripagati veramente è quella del consenso pubblico: ed è lì allora che i protagonisti tornano ad essere quelli della prima stagione, spietati e senza nessun timore di sfruttare le paure altrui. E l'effetto è sicuramente quello desiderato, perché il finale di quarta stagione è proprio quello che dovrebbe essere: finalmente anche Claire sfonda la quarta parete con il marito Frank e ci lascia con la spasmodica voglia di scoprire quali saranno i risvolti della politica del terrore della quinta stagione, già confermata ovviamente. House of cards quest'anno però al contrario degli anni passati e dello scorso anno dove si era praticamente fermata, per esplorare maggiormente il personaggio di Claire e aveva dovuto fare i conti con una storia non di conquista del potere ma bensì di mantenimento di esso, ha un ritmo diverso ed è proprio grazie alla figura di Claire Underwood che ciò appare chiaro. Robin Wright, che dirige ben tre episodi quest'anno, è superlativa, la sua performance è meravigliosa, il personaggio di Claire è completo, ha tutte le sfumature che erano appena accennate gli anni scorsi ed è adesso, dopo il finale, al pari se non al di sopra del protagonista. La serie, come Claire, dimostra di saper sopravvivere anche senza Kevin Spacey che per due episodi circa compare meno, ma l’azione va avanti si evolve e la tensione non si abbassa e così Claire dimostra di poter piegare al suo volere capi di stato, avversari politici e il presidente degli Stati Uniti d'America. La quarta stagione ha osato ancora di più, introducendo scene oniriche, rubinetti che versano sangue, dialoghi ambigui, svolte inaspettate dei protagonisti (Michael Kelly, Mahershala Ali, Gerald McRaney) e frasi ciniche ed estreme. Tutto ciò avrebbe potuto portare la serie sull'orlo della pagliacciata, dell'esagerazione fine a se stessa, ma grazie alla sceneggiatura sapiente e l'adrenalina che non cala mai per tredici ore filate, non è così. Questa quarta stagione soprattutto però, richiama tantissimi temi della prima, chiudendo trame iniziate quattro anni fa ma in modo ancora più estremo. Ritroviamo Peter Russo e Zoe Barns, ma i cameo non sembrano fuori luogo, anche il rapporto di ferro tra Frank e Claire ricorda quello della prima stagione ma è mutato, i due infatti non sono più marito e moglie o presidente e first lady, bensì una cosa sola, un unicum. Ed è proprio nell'ultimo episodio che ci rendiamo conto di ciò, ma soprattutto che House of Cards si candida a miglior serie dell’anno. Una serie che se parlasse direbbe: "siamo una serie cattiva, i protagonisti non sono positivi, non abbiamo niente di convenzionale eppure volete guardare lo stesso". Ha ragione, è difficile distaccarsi. io certamente continuerò a vederla, per molti aspetti e certe scene, scene in cui non sai mai cosa potresti vedere o cosa potrebbe accadere, quando tutto sembra finito l'intuizione o mossa giusta per girare il coltello dalla parte del manico, i primi piani di Frank poi sono così incredibili e spettacolari, e poi in fin dei conti mi diverto troppo quando riescono sempre ogni volta a vincere, che sia una guerra, un diverbio o affari, la spuntano sempre inevitabilmente. Voto: 7
Nessun commento:
Posta un commento