giovedì 27 giugno 2019

Big Hero 6: La serie (1a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 25/06/2019 Qui
Tema e genere: Serie d'animazione di genere supereroistico, di cui prima stagione è composta da 21 episodi, che ridà vita ai personaggi del cartone animato premio Oscar nel 2015.
Trama: Proseguono le avventure di Hiro, adesso impegnato in nuove sfide accademiche e sociali, e dei suoi compagni. Hiro che inoltre, quando non è impegnato con gli studi, è coinvolto con gli altri eroi nella protezione della città da un vasto numero di villain tecnologici.
Recensione: Avrei preferito un sequel, del 54° Classico Disney Big Hero 6, ma forse è meglio così, meglio aver prodotto un serial, dato che in questo modo le storie continuano sempre a vivere, continuando a divertire, giacché difficile stancarsi dell'universo qui prodotto. Un universo che viene benissimo ripreso dalla serie, dato che la trama è ambientata dopo gli eventi del film originale e continua a seguire le avventure di Hiro, di Baymax e dei loro amici che insieme formano la squadra di supereroi Big Hero 6. Come se non bastasse, prodotta da Bob Schooley e Mark McCorkl e diretta da Chris Whittier e Ben PlouffeBig Hero 6 La Serie ripropone lo humor e le emozioni del film originale, ed è fantastico, inoltre introduce anche nuove avventure e personaggi, ulteriormente fantastico. Come fantastico è il modo con gli autori decidono di riprendere da dove la pellicola si era interrotta, con l'eroe 14enne Hiro e i suoi amici (Wasabi, Honey Lemon, Fred e Go Go, senza ovviamente dimenticare Baymax, l'ipertecnologico operatore sanitario personale tutto da abbracciare) impegnati a difendere la futuristica città di San Fransokyo dalle minacce più disparate. Infatti, i 21 episodi sono preceduti dall'episodio speciale Baymax Returns (Il ritorno di Baymax) che fa brillantemente da ponte tra il film e le puntate. Puntate in cui il divertimento non manca mai, dove incredibili peripezie attendono Hiro, Baymax e tutto il resto della squadra che insieme devono imparare a gestire la loro doppia vita di studenti e di supereroi per difendere la loro città, dalle minacce di un gruppo di cattivi dotati di potenti strumenti hi-tech, che usano le meraviglie della scienza per scopi tutt'altro che gradevoli. Le sfide del giovane Hiro però arriveranno anche da un altro fronte, e anche da lì il divertimento non mancherà. Come non è mancato il cameo del compianto Stan Lee, che aveva interpretato in un breve cameo alla fine del film, che qui tuttavia ha un ruolo più "centrale", protagonista secondario di più puntate. E insomma bella sorpresa questa serie, una serie che seppur toglie la possibilità di vedere una seconda pellicola, riesce a non rimpiangere nulla, anzi, soddisfa e convince.

Fortitude (3a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 25/06/2019 Qui
Tema e genere: Fine della storia sui ghiacci del Circolo polare Artico. Terza ed ultima stagione (di quattro episodi) per la serie a metà tra l'horror e il thriller ambientata tra le nevi della Norvegia nella cittadina di Fortitude.
Trama: Dopo gli eventi terribili degli ultimi mesi (della seconda stagione, qui la recensione), dal caos generato dallo sciamano Vladek, alla scomparsa della dottoressa Khatri fino alla morte del governatore Munk, la comunità di Fortitude cerca di riconoscersi in quelle strade che fino a poco tempo fa erano considerate uno dei posti più tranquilli al mondo. Ma le difficoltà di cittadini, poliziotti e agenti della scientifica nel gestire le conseguenze degli orrori che hanno lasciato una scia di sangue sulla città, sono evidenti. Lo sceriffo Dan Anderssen (Richard Dormer) e il capitano Michael Lennox (Dennis Quaid) combattono contro i loro demoni: il primo, sopravvissuto al Parassita che aveva attaccato la comunità, tenta disperatamente di tornare in sé e distinguere il bene dal male, il secondo affoga nell'alcol il dolore per la perdita della moglie Freya e prova a redimersi salvando la vita di un'altra donna che ama. Ma nel vento gelido di Fortitude, i destini dei due uomini prenderanno a girare in maniera completamente diversa. In questo clima oscuro e indecifrabile, nuovi volti fanno il loro ingresso nella fredda comunità: la misteriosa Elsa Schenthal (Aliette Opheim) e suo marito Boyd (Abubakar Salim) sono arrivati dagli Stati Uniti per fare delle ricerche sul Parassita che ha colpito l'isola. Inoltre, le autorità di Oslo hanno inviato a Fortitude due poliziotti, Ingeborg Myklebust (Maria SchraderDeutschland 83 e Deutschland 86) e il suo assistente Torsten Oby (Set Sjostrand) per risolvere il caso della morte del governatore Munk. Scoraggiati in un primo momento dal silenzio dei cittadini che cercano faticosamente di tornare alla loro quotidianità, i due detective si avvicineranno pericolosamente alla verità.
Recensione: Succede così tanto e così poco, di negativo nel primo caso, di positivo nel secondo caso, che parole per esprimere il mio dissenso non ce ne sono abbastanza. E quindi invece di scrivere e parlare di questa deleteria stagione, di cui troverete qualcosa comunque nella scheda sottostante, farò riferimento all'intera serie. Creata da Simon DonaldFortitude, ha appassionato il pubblico fin dal suo esordio, fin da quando un grandioso Stanley Tucci nei panni di Eugene Morton, investigatore londinese, indagava sul macabro ritrovamento di un corpo maciullato ritrovato tra i ghiacci, fin quando il virus, questo patogeno voleva essere lo specchio e il riflesso dell'immagine dell'oscurità che alberga dentro ogni essere, anche in quello più buono, anche in quello più giusto, ma poi qualcosa si è spezzato, anche se poi alla fine, indubbiamente bisogna dire che al netto di alcune (ahimè troppe) imperfezioni e arrangiamenti, la serie di Fortitude è riuscita ogni volta a distinguersi per singolarità del soggetto, per un'ambientazione che sfoggia paesaggi magnifici e irrimediabilmente malati ed inospitali, per l'interpretazione brillante di alcuni protagonisti, coadiuvati da una sceneggiatura volutamente confusionaria, ma che è riuscita a pennellare anche tratti di genialità. Molto bene anche il comparto musicale e sonoro in generale, capace, fin dalla sigla, di premiare quell'alone di giallo e mistero che avvolge la piccola e glaciale cittadina di settecento abitanti. Il criptico cielo artico, episodio dopo episodio, porta alla luce l'impurità dei suoi abitanti, svelando i segreti di ognuno di essi, mescolando le loro vite, facendole incontrare e scontrare, e dando loro il giusto e, perché no, anche brutale epilogo. Peccato solo per il deludente intermezzo centrale e quello finale (questo di più, pessimo proprio), perché anche se nel complesso si rimane soddisfatti dalla particolarità del prodotto, stregati dai paesaggi e dal clima corrotto e tenebroso che certamente è riuscito ad assorbirci per tutte e tre le stagioni, la disillusione resta ed è cocente.

Person of Interest (5a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 25/06/2019 Qui
Tema e genere: I tredici episodi conclusivi della serie televisiva statunitense di genere fantascienza distopica e crime drama, formano una monumentale parabola morale in salsa action (botte, sparatorie ed esplosioni non si contano) che tocca temi raramente sviscerati nelle serie, e raramente accessibili a quelle di network, è, infatti, una riflessione sulla rinuncia del proprio diritto alla privacy in cambio di una millantata sicurezza e sull'abuso che ne fanno i governi, una speculazione postumanista sulla possibilità o meno che le intelligenze artificiali possano sviluppare autocoscienza e umanità (e in cosa quest'ultima si definisca), un processo alla nostra specie e sul fatto che questa meriti o meno di essere salvata, e una disamina della paternità e di quali diritti e doveri comporti nei confronti di colui/colei a cui si è data la vita.
Trama: La stagione conclusiva segue Finch, Reese, Root, Shaw e Fusco organizzarsi per lo scontro finale con Samaritan, il supercomputer nemesi della Macchina (che altri non è che una versione edulcorata di Skynet).
RecensionePerson of Interest non è mai diventata la mia serie preferita, non ci è andata neanche vicino. Eppure in questi anni (nel mentre che vedevo altro), nel suo angolino seminascosto, è riuscita ad elevarsi dallo stagno del puro intrattenimento per tentare qualche passo più ardito, qualche ragionamento più significativo, riuscendoci. Riuscendo a tenere alta l'attenzione nonostante gli anni, ho recuperato la quarta solo mesi fa (qui la recensione) ma è stato come la prima volta, riuscendo ogni volta a far riflettere, visto i temi di grande importanza che l'hanno sempre contraddistinta, lo spettatore. In questo senso, la forma seriale ha dato una grandissima mano al progetto: concepire la storia di una Macchina nata per essere niente più di uno strumento di controllo preventivo, per farla diventare un'intelligenza che potesse addirittura amare e che meritasse di essere amata, avrebbe avuto sicuramente un impatto diverso se tutto il racconto si fosse esaurito nello spazio di un film (e di storie di questo tipo la fantascienza è comunque piena). La narrazione seriale, però, ha consentito uno sviluppo graduale della storia, esponendola al rischio della noia e della stagnazione, ma garantendole il tempo necessario affinché l'evoluzione dei personaggi (umani o no) riuscisse a essere davvero verosimile ed emozionante, pur nel contesto inevitabilmente futuristico. Ed è così che giungiamo alla quinta ed ultima stagione di Person of Interest, serie partita un po' in sordina, e comunque rimasta di nicchia anche negli anni, ma che ha dato tantissime soddisfazioni a chi ha proseguito nella visione fino al suo series finale. La serie infatti ha un po' faticato all'inizio, ma poi sviluppandosi ed approfondendosi sempre più, ha creato un intreccio che ha saputo regalarci ogniqualvolta una storia avvincente, colpi di scena grandiosi, morti eccellenti, riflessioni su etica e moralità, personaggi a tutto tondo ed interazioni tra loro realistiche ed emotivamente coinvolgenti, con attori bravi e sempre in parte. Tutto ciò immerso in una trama in cui niente è mai stato lasciato al caso e tutto è sempre stato ben analizzato e ponderato. E com'è ovvio la quinta stagione non si è discostata da queste caratteristiche. Nei primissimi episodi assistiamo alla lenta rinascita della macchina dopo la sua quasi distruzione nel finale della quarta stagione e vediamo i suoi sostenitori riunirsi per continuare a combattere per lei. Reese, Finch e Root ci hanno messo davvero poco a ritrovarsi, mentre per Fusco e Shaw il percorso è stato più lungo. Comunque dopo tante peripezie, i nostri trovano un virus che potrebbe eliminare il grande avversario, ma potrebbe anche far sparire per sempre la Macchina. Corrono tuttavia il rischio e ciò si rivela la mossa migliore, anche se per fare ciò non rinunceranno solo a qualcosa, ma perderanno qualcuno.

venerdì 7 giugno 2019

The Walking Dead (9a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 05/06/2019 Qui
Tema e genere: Continua il viaggio dei superstiti all'apocalisse zombie nella serie tv survival horror più longeva di sempre.
Trama: Dopo lo scontro "definitivo" all'apparenza, che ha comunque risolto alcune divergenze e dato la possibilità a tutti (quasi tutti) di ricominciare e progredire, le difficoltà nella nuova società non mancano. E se la prima volta il nuovo inizio sopperisce alle problematiche della conciliazione in modo spiazzante, la seconda, spiazzante è l'arrivo di uno spietato avversario, che metterà a durissima prova gli sforzi fatti. E non sarà l'unico problema.
Recensione: Personalmente una sorpresa, credevo peggio, e invece nel complesso è stata una buona stagione, la nona, di The Walking Dead. Non "eccezionale", neanche "ottima", ma buona sì, e per arrivare a questo risultato sono bastati alcuni accorgimenti e alcune iniezioni di minima creatività, che hanno consentito di uscire da strutture e dinamiche che ormai mostravano da tempo un certo affaticamento. Dopotutto dopo nove stagioni, nessuna serie televisiva poteva rimanere integra del tutto, poteva sedersi beatamente, qualcosa doveva cambiare, è cambiato, anche se non tutto è andato per il meglio, ma sarebbe ingrato non riconoscere a questa stagione di aver lanciato dei confortati segnali di risveglio. E questo nonostante la testarda presenze dei soliti punti dolenti. In questa stagione infatti, nei sedici episodi, i protagonisti affrontano molte traversie, simili ma diverse, tra la perdita di numerosi personaggi importanti e tante tragedie. Questo soprattutto nella seconda parte, la serie difatti vede nuovamente una suddivisione in due tronconi, più accentuata però, diversa l'una e l'altra sia per accumulo della tensione drammatica, sia per un discorso legato a un rinnovamento dei contenuti. Seconda parte che paradossalmente vede uno dei periodi più stanziali e sereni di sempre. Un salto temporale di sei anni infatti, ci (re)introduce in un mondo profondamente cambiato, un mondo che è andato avanti, portando con sé vecchie ruggini tenute nascoste (che vede la "scomparsa" di due protagonisti centrali), ma che vedrà sorgere soprattutto una nuova temibile minaccia, minaccia che è probabilmente la migliore mai vista nella serie, i Whisperers (i Sussurratori), sorta di anello mancante fra umani e zombie, che riescono a sommare le peggiori caratteristiche dei due. Alpha (interpretata benissimo da Samantha Morton), a capo di questo folle ed inquietante gruppo (che riesce nell'impresa di ridare senso e spessore alla presenza degli zombie, ormai non più minacciosi da anni, il disorientamento provato davanti a un errante, di cui adesso va interpretata la vera natura in pochi istanti, è infatti una svolta inaspettata quanto necessaria), è un'ottima villain, perché è la prima della serie che ha un'intelligenza tattica, ma con cui al contempo è impossibile ragionare. Tanto che molto scompiglio produce e produrrà, le cose sembrerebbero infatti poter ulteriormente peggiorare in futuro, probabilmente lo faranno, e si ha una discreta voglia di vedere come e cosa accadrà. Comunque al di là di ciò, da segnalare soprattutto c'è un elemento in tutto questo, in questa stagione e in questa seconda parte, ovvero la scomparsa di uno dei personaggi storici della serie, se non il più importante: Rick Grimes. Come noto (almeno dagli addetti e fan), Rick, interpretato dal bravissimo Andrew Lincoln, ha lasciato la serie in maniera molto originale, ma decisamente furba, furbescamente in attesa dei film. Una mossa interessante ma la sua mancanza è intensa e percepibile, inoltre non sapere cosa gli è successo infastidisce. A tal proposito di note dolenti ce ne sarebbero più d'una, non ultimo il fatto che su sedici episodi stagionali se ne contano forse 3-4 realmente memorabili, e sono un po' pochini. Non bastasse che restino e sono troppe le sequenze dedicate a tanti, troppi personaggi senza carisma e profondità, incapaci di accaparrarsi il nostro interesse e la nostra empatia.

La verità sul caso Harry Quebert (Miniserie)




Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 23/05/2019 Qui
Tema e genere: Miniserie in 10 puntate diretta da Jean-Jacques Annaud, basata sull'omonimo romanzo del 2012, scritto da Joël Dicker, trasmetta su Sky Atlantic, che tratta di un caso poliziesco e non solo.
Trama: La serie parla del giovane Marcus Goldman che alle prese con il primo blocco dello scrittore dopo la pubblicazione del primo libro decide di rivolgersi al suo mentore: Harry Quebert. Di lì a poco, però, Harry (artefice di un romanzo capolavoro) viene accusato dell'omicidio di una giovane ragazza, Nola Kellergan, avvenuto nel 1975. E così mentre Marcus scopre che Quebert aveva avuto una relazione clandestina con la ragazza (quindicenne) la polizia comincia, dopo 30 anni, e con l'aiuto dello stesso, ad indagare. Ma non è facile, gli intrighi sono moltissimi, le persone coinvolte tante, tutti però rivivranno quell'estate nel tentativo di venire a capo del mistero. Chi ha ucciso Nola?
Recensione: Le premesse per un'opera capace di lasciare il segno c'erano tutte. Un best seller internazionale da 3 milioni di copie vendute, considerato da molti come uno dei gialli più avvincenti dell'ultima decade. Una ricca produzione internazionale. Un regista cult come Jean-Jacques Annaud (Il Nome della Rosa, Sette anni in Tibet, ma anche L'ultimo Lupo). E un cast hollywoodiano (anche se non di primissimo piano) capitanato da Patrick Dempsey. Invece la trasposizione televisiva de La verità sul caso Harry Quebert, è una piccola delusione. Chi scrive non ha letto il libro e dunque la critica non risulta influenzata dalla sindrome del lettore-deluso, che sovente colpisce coloro che hanno amato un'opera letteraria nel momento in cui dalle pagine passa sullo schermo. Il giudizio è frutto unicamente della visione della serie. Una serie certamente non brutta, anche piacevole, che si lascia seguire senza mai annoiare, ma che ha parecchi ed evidenti difetti. Ci sono dei passaggi infatti che mi hanno lasciato parecchio perplesso, momenti specifici in cui la voglia di cambiare canale si fa veramente molto pesante. Colpa soprattutto di un racconto sempre parecchio arzigogolato e spesso anche inverosimile. Devo ammetterlo, due cose sono a dir poco assurde. Già hai una trama piena di mistero, una cittadina in cui nessuno ha visto, sentito e detto niente, hai il parallelismo con la vita del romanziere...Bene, con tutta questa carne a fuoco era necessario ricorrere a certe trovate? E poi, ancora, ma si doveva necessariamente far fare la parte degli imbecilli all'ispettore e a Marcus, Ben Schnetzer e Damon Wayans Jr. infatti, che rispettivamente interpretano lo scrittore e il sergente, gli unici due personaggi ricorrenti che si ritrovano completamente estranei alle vicende avvenute 33 anni prima, sorta di narratori che guidano lo spettatore attraverso le vicende, le 10 puntate e i vari livelli temporali (sono 3, ma non immaginatevi la fluidità e la classe di True Detective, proprio no), quando si scopre che non erano a conoscenza di un particolare importante? Cioè veramente (senza aver fatto spoiler), l'ABC della credibilità di una investigazione. Mi sono sembrati due espedienti volti unicamente ad allungare il brodo (già allungato da storie secondarie sui personaggi della cittadina di Sommerdale poco affascinanti) e a rendere assai inverosimile il mistero. Un mistero scandito da continui colpi di scena, da cliffhanger a fine episodi, che vengono costantemente annullati nella puntata successiva. Ma uno dei problemi più grandi che ho riscontrato in questa serie è in assoluto il casting dei protagonisti. Dal giovane Ben Schnetzer a Kristine Froseth (senza carisma entrambi). Gli altri attori, forse perché anche più maturi (e parlo di Kurt FullerRon Perlman e Virginia Madsen) riescono ad arginare le mancanze dei due giovanissimi, ma ciò non basta a renderli piacevoli quando in scena. E insomma va bene che la serie ha un bel ritmo, che comunque si lasci seguire, ma una storia meno intricata e più credibile no? Qualcosa di meno banale no? Personaggi e quindi attori più verosimili no? No! Ok, contenti loro, io non tanto, anzi, quasi per niente.

Cobra Kai (1a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 15/05/2019 Qui - Stiamo vivendo un periodo particolarmente denso di novità in termini di produzione e distribuzione televisiva. Dopo Netflix e Amazon Prime Video, con Disney ormai pronta a mettere giù i suoi carri armati e Apple che si dice stia investendo miliardi in produzioni originali, anche Youtube si è affacciato al mondo delle produzioni originali attraverso il suo nuovo "canale" Youtube Red. L'esordio è stato di quelli che fanno parlare, e hanno fatto parlare, e tanto. Karate Kid, un vero e proprio caposaldo per chiunque sia stato un ragazzino negli anni Ottanta, riportato ai giorni nostri. Una serie che, a differenza del tentativo di reboot di qualche tempo fa, prende ambientazioni, situazioni e protagonisti dei film originali e li riporta ai giorni nostri, mescolando abilmente (anche di più) le cose. Sì perché Cobra Kai, serie televisiva statunitense, creata da Jon Hurwitz, Hayden Schlossberg e Josh Heald, basata sulla serie di film The Karate Kid, creata da Robert Mark Kamen, sorprendentemente è una gran bella serie tv. Le aspettative erano basse, e invece stupisce alla grande. Diciamocelo, sono ormai anni che ci propinano sequel, reboot e prequel di film rimasti nell'immaginario popolare, fallendo molto spesso miseramente perché il problema di fondo è uno, secondo me: una storia appartiene ad un momento storico, a quell'epoca e basta. Appartiene al colpo di genio, ad un momento irripetibile che un autore, un regista o uno sceneggiatore hanno avuto e che non potrà mai essere eguagliato. In più l'offerta di film e serie è ormai quasi saturata da prodotti che puntano sulla nostalgia degli anni '80, che sono appunto l'ennesimo remake o reboot tutto fondato sull'hype, o che per far tifare per i "cattivi" prendono la via facile di ridurre i "buoni" a macchiette, e quindi era lecito essere curiosi ma anche tenere tutte le spie accese approcciandosi a Cobra Kai, serie seguito sui generis dei film originali di Karate Kid, di cui soprattutto il primo è uno dei miei film preferiti dell'infanzia. E dico "dell'infanzia" perché mi vergogno un po' a dire "di sempre" (ma di questo dirò dopo). Poi succede il miracolo e a rispondere ad un prodotto dimenticabile quale può essere The Karate Kid con Jackie Chan, arriva qualcosa che ha passione e rispetto per ciò che è stato. Cobra Kai è il risultato di questi due ingredienti. Prodotto anche da Ralph Macchio (il fu Daniel Larusso) e William Zabka (Johnny Lawrence) stessi, questa serie è infatti l'ideale e perfetto sequel della trilogia di Karate Kid (che per quanto citato, parodiato e richiamato, non era ancora stato protagonista di un vero e proprio ritorno) diretta dal compianto John G. Avildsen dall'84 all'89, conservandone tutte le caratteristiche ci hanno fatto amare Daniel Larusso, Sensei John Kreese e sopratutto il mitico maestro Miyagi.

Tin Star (2a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 08/05/2019 Qui - Si potrebbe semplificare tutto con poche parole, è tornata Tin Star, è tornata la serie targata Sky, tornata con una seconda stagione, ma i problemi sono rimasti gli stessi della precedente stagione, anzi, sono pure di più. Se avete già letto la mia recensione riferita alla prima infatti (se non l'avete fatto la potete leggere qui), vi potreste rendervi conto di quanti e quali difetti ne hanno minato la resa finale, la resa finale di un prodotto che ha continuato anche in questa (inevitabile ma anche "era meglio di no") seconda stagione (ovviamente nuovamente trasmessa su Sky Atlantic il mese scorso e quello prima ancora) a soffrire degli stessi problemi, alcuni di essi addirittura accentuati da un percorso ancor peggiore, ancor più senza senso, banale e a tratti ridicolo. Eppure il finale della prima stagione aveva lasciato (diciamo bene) gli spettatori in sospeso con un cliffhanger di indubbio impatto: Anna che spara in direzione del padre Jim (Tim Roth) dopo che questi, contro la volontà della moglie Angela (più o meno), aveva (giustamente) ucciso sulle montagne innevate canadesi Whitey, di cui la ragazza si era innamorata nonostante il giovane fosse colpevole dell'omicidio del fratellino Petey (e questo fa già capire dell'elevata stupidità della giovane e della serie, che vagava senza un senso). L'episodio era stato il culmine di una serie tv che, dopo la promettente prima puntata di Tin Star in cui venivano introdotti contesto e protagonisti, con il passare del tempo aveva progressivamente perso coerenza e capacità di suscitare interesse ed empatia, tra personaggi delineati in maniera molto superficiale, sviluppi narrativi affrettati, dialoghi spesso retorici e sensazionalistici che conducevano ad interpretazioni sopra le righe. Il tutto condito da un goffo tentativo di fondo di ispirarsi al modello della tragedia greca, che finiva però per sfociare negli assai più modesti canoni della soap opera (di cui sopra, oltre a tanto altro nel mezzo che non vi sto a raccontare). Pur essendo discretamente realizzata dal punto di vista tecnico e avvalendosi del carisma di un Tim Roth che provava in tutti i modi a sopperire con il mestiere a evidenti lacune della sceneggiatura, Tin Star aveva tradito le buone premesse iniziali. Nonostante qualche colpo di scena piazzato al momento giusto, la serie britannica del 2017 si era rivelata una delusione.

Room 104 (1a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 10/04/2019 Qui - Un format poco diffuso, una struttura non convenzionale, non facile sembrava in partenza, eppure alla fine si rimane più o meno soddisfatti dalla nuova serie antologica (12 puntate in totale) di HBO, Room 104. Una serie, firmata dai fratelli Duplass (che per HBO avevano già sviluppato la dramedy Togetherness, non con tanto successo), con un concept molto semplice ed una struttura narrativa decisamente suggestiva, si raccontano cose accadute all'interno della stanza 104 di un albergo. Infatti ogni episodio fa storia a sé e l'unica cosa che rimane invariata per tutta la stagione è la location: la stanza 104 di un motel statunitense, non meglio localizzato geograficamente. In tal senso viene spontaneo associare questa configurazione (anche se in questo caso però è sicuramente importante anche menzionare l'influenza della serie britannica Inside No.9, che con Room 104 condivide anche l'ambientazione al chiuso, oltre che il format) a Black Mirror, probabilmente lo show che in questi anni ha contribuito maggiormente (grazie alla sua qualità e al successo ottenuto) a rilanciare questo tipo di prodotti, ed effettivamente si individuano alcuni punti di contatto, seppur esclusivamente a livello concettuale, tra le idee alla base delle due serie televisive: i fratelli Duplass, così come Charlie Brooker soprattutto nelle ultime due stagioni, scelgono di spaziare molto tra i generi narrativi a loro disposizione, proponendo episodi molto diversi tra loro per struttura narrativa, tematiche introdotte e caratteristiche tecniche. Ogni episodio, quindi, ha una storia diversa, con attori e autori diversi, temi diversi, taglio differenti, con un proprio stile caratteristico e sviluppi imprevedibili: non c'è un filo logico evidente o una tematica di fondo a collegare la stagione, né dal punto di vista narrativo che strutturale rispetto alla trama verticale di ogni episodio. La stagione è a tutti gli effetti una raccolta di cortometraggi (considerata la durata molto breve di ogni puntata, poco più di venti minuti) che vanno analizzati singolarmente e che, proprio per questo motivo, determinano l'andamento altalenante della qualità della serie. Anche perché raccontare una storia in 20 minuti è difficile, si può sbagliare in qualsiasi momento e arrivare in fondo senza aver trovato una chiave efficace o senza aver costruito un percorso inattaccabile. Non a caso ad episodi eccellenti ne corrispondono altri molto deludenti e alle volte addirittura disastrosi, con una trama inconsistente e priva di mordente.

True Detective (3a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 04/04/2019 Qui - C'era grande attesa per la nuova stagione di True Detective, derivata in parte dalla fama della prima stagione e dalla delusione per la seconda, che chiamava a gran voce un riscatto da parte degli autori. Le premesse c'erano tutte, un ritorno alle origini delle serie e un cast ridotto ma d'alto livello. La scelta di far interpretare a Mahershala Ali il nuovo protagonista ha incuriosito gran parte dei fan della serie, che hanno atteso con trepidazione la sua prova. La loro attesa non è stata delusa, e l'attore è stato magistrale come sempre (un po' come tutti gli altri attori impegnati nella serie). Ciò che invece ha abbattuto le aspettative è stata la costruzione della storia e la sua messa in scena fino a che non ci si accorge di una narrazione stanca ed estenuante subito dopo i primi promettenti episodi. La terza stagione di True Detective infatti, pur restando ed essendo comunque un solido esempio di thriller e mistery drama, capace di inchiodare lo spettatore fino all'ultima puntata e pur confermando il talento del neo premio Oscar Mahershala Alì, che si conferma appunto uno dei più grandi interpreti del nostro tempo, non convince del tutto. E non c'entra solo il fatto che inesorabilmente paghi il confronto con la straordinaria prima, difatti per quanto essa poteva viaggiare ad alti livelli (e per un po' lo fa), era chiaro che non potesse mai raggiungere l'accattivante eleganza di quella impareggiabile stagione, ma perché non tutto è andato come doveva andare in questa terza stagione, andata in onda da gennaio a marzo su Sky Atlantic. E questo soprattutto perché, con il chiaro intento di restituire le emozioni e le atmosfere della prima, non bastasse che anche qui il caso che fa da perno per la vicenda si svolge in diversi archi temporali (di nuovo quindi in un'altalena temporale), la serie non riesca a replicare il medesimo successo, il medesimo effetto. Siamo infatti ben distanti dalla violenta eleganza della prima stagione con Matthew McConaughey e Woody Harrelson. La filosofia, l'introspezione, l'azione e soprattutto il pathos che caratterizzò l'esordio della serie vengono qui a mancare (o almeno in parte), manca quasi l'anima a questa terza stagione, stagione che ha un'obiettivo di altra natura, ovvero raccontare semplicemente un uomo, e questo indubbiamente ha pesato negativamente in confronto anche alla narrazione meno "potente" e più caotica.

The ABC Murders (Miniserie)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/03/2019 Qui - Dal 2015 il palinsesto della BBC include un adattamento seriale di un testo di Agatha Christie, le cui opere complete sono ora in mano alla rete ammiraglia britannica dopo anni di trasposizioni ITV. Al quarto giro, dopo tre storie auto-conclusive (Dieci piccoli indiani, Testimone d'accusa, Le due verità), la sceneggiatrice Sarah Phelps, che ha curato al momento tutti gli adattamenti dell'opera della regina del crimine, decide stavolta di cimentarsi con la più nota creazione di Christie, Hercule Poirot. Il celebre detective belga è quindi tornato anche in tv dopo il cinema, ma quello che vediamo è un Poirot del tutto diverso. In The ABC Murders (dal romanzo La serie infernale), egli ha infatti il volto a tratti sorprendente di un attore americano, John Malkovich, il quale è al contempo l'elemento più affascinante e spiazzante del progetto: da un lato, è inevitabile una certa sensazione di straniamento sul piano puramente visivo, dal momento che l'attore americano si discosta dall'immagine classica del detective, almeno da quella portata sullo schermo da molti interpreti, dall'altro, la scelta di evitare il cliché del Poirot imperturbabile e innamorato della propria intelligenza, sostituendolo con un personaggio la cui mente brillante è accompagnata da un dolore impronunciabile e una rabbia a volte malcelata, non sembra proprio il massimo. Ma a sorpresa funziona, perché anche se al quarto giro, il nuovo filone della BBC basato sulle opere di Agatha Christie, con il volto di John Malkovich (che comunque offre un'interpretazione esemplare), si discosta non poco dalle versioni canoniche a cui siamo abituati, ne preserva anche l'essenza di uno dei personaggi più amati della letteratura britannica, dando alla miniserie quel fattore umano che potrebbe chissà lanciare tutta una nuova serie di avventure di Poirot sul piccolo schermo. Una miniserie, uno show che si fa apprezzare, inoltre, per una produzione accurata, che dedica una rimarchevole attenzione alla fotografia.

Person of Interest (4a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/03/2019 Qui - Ha sempre avuto un po' il sapore della fantascienza vecchia scuola Person of Interest, tra personalità cibernetiche che raggiungono vette tra il divino e il magico, eroi urbani che se la cavano per il rotto della cuffia, ma soprattutto possibilità sconfinate e ancora non raggiunte poste con garbo e calate in un contesto quotidiano. Quella fantascienza al confine tra meraviglia e fantasy, Spielberghiana di nascita (e l'idea di Minority Report è uno dei riferimenti iniziali), ma Abramsiana di adozione, che ha sempre intrattenuto con i suoi alti e bassi. La quarta stagione di Person of Interest ha continuato con coerenza su quella scia, nonostante scelte di trama discutibili, ma riuscendo a mantenere alta l'asticella dell'intrattenimento e della qualità. La trama di Person of Interest sembra così banale eppure così attuale (soprattutto adesso). Dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 si è sentita la necessità di creare qualcosa che facesse sentire al sicuro gli americani. Per questo Harold Finch (Michael Emerson, uno dei naufraghi di Lost), milionario solitario esperto di computer, ha costruito una Macchina per il Governo degli Stati Uniti che utilizza la mole enorme di dati raccolti dagli onnipresenti sistemi di sorveglianza al fine di prevedere gli eventi criminali definiti "rilevanti", ovvero gli attacchi terroristici. La creatura di Finch però riesce a rilevare anche i reati comuni, definiti "irrilevanti", e quindi per poter prevenire questi delitti chiama a raccolta un po' di aiutanti (Jim Caviezel sempre presente), ma della squadra in questa stagione si deve fare a meno di Carter (Taraji P. Henson), uccisa anche per colpa di chi questa Macchina vorrebbe governarla a suo piacimento, qualche altra organizzazione uccidere. Ma quando compare la Decima Technologies che, dopo aver fallito nell'intento di appropriarsi della Macchina, ormai un'entità a se stante, ruba la versione alfa, lo scontro è inevitabile. Uno scontro fra due dei, la Macchina e Samaritan, due lati della stessa divinità, due espressioni di una mente superiore che è lo specchio di chi l'ha creata e di chi la governa. E sarà uno scontro non da poco, ma ancora tutto da scrivere e vivere anche nella quinta (ed ultima) stagione.

Succession (1a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/03/2019 Qui - Non sapendo cosa vedere, in una settimana in cui aspettavo completassero la messa in onda alcune serie che vedrò e recensirò prossimamente, ho puntato su una serie tv d'autore, una serie che raccontava la storia di una ricca famiglia di imprenditori del settore dei media che sembravano ricordare i Murdoch ma che non erano, ovviamente, i Murdoch, ma ho sbagliato cavallo. La serie pur non essendo un qualcosa di orrido, ma soltanto qualcosa di discreto interesse, non mi ha soddisfatto, tanto che per la prima volta potrei non vedere e non concludere un serial, dato che la serie è stata rinnovata per una seconda stagione. In ogni caso, realizzata dall'emittente televisiva statunitense HBOSuccession è creata da Jesse Armstrong e prodotta tra gli altri (anche dallo stesso creatore ed ideatore) da Adam McKay, sì proprio lui regista de La grande scommessa e di Vice, lui che firma anche come regista il primo episodio e da Will Ferrell, con Brian Cox nei panni di un magnate a capo di una famiglia disfunzionale e di un impero mediatico multimilionario. Succession (andata in onda su Sky Atlantic tra ottobre e novembre scorsi, ma comunque sempre disponibile su on demand) è infatti un cosiddetto family drama, a conferma di quanto ancora, paradossalmente, la famiglia nelle sue varie articolazioni interessi gli autori delle fiction e di conseguenza del pubblico, soprattutto in America da dove arriva anche il maggior numero di sit-com con storie di padri, madri e figli a confronto. Il più delle volte la famiglia è rappresentata come un modello astratto da accettare o rifiutare, invece che una realtà concreta da vivere, mettendo in ombra o addirittura in cattiva luce la famiglia cosiddetta tradizionale a beneficio di altre aggregazioni. Ma questa è una storia che conosciamo bene. Tornando invece a Succession, la storia che racconta, ambientata a New York, è quella della famiglia Roy, guidata dal patriarca ottantenne Logan (il rammentato Brian Cox, in verità l'unico personalmente parlando impeccabile nel suo ruolo), che nel giorno del suo ottantesimo compleanno, a seguito di un malore, finisce in coma all'ospedale in terapia intensiva. Da quel momento, tra i quattro figli (tre maschi e una femmina) accorsi al capezzale, si scatena la lotta per la successione, ignari che il colosso di famiglia, la "Waystar Royco", navighi in acque tutt'altro che tranquille. La ricerca del successore e il futuro dell'azienda diventano così il motore di tutte le vicende che animano la serie tv (di dieci puntate), anche quando tra lo stupore generale il vecchio Logan riapre improvvisamente gli occhi.

Agents of S.H.I.E.L.D. (5a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 20/03/2019 Qui - Ne è passata di acqua sotto i ponti dall'incerto debutto di Marvel's Agents Of S.H.I.E.L.D. nel 2013. Ma con il passare degli episodi e delle stagioni (la recensione della terza la trovate qui), la serie (con funzione da collante tra le varie pellicole facenti parte del Marvel Cinematic Universe) si è sempre evoluto, non cristallizzandosi mai nella sua forma narrativa e introducendo elementi sempre nuovi, cercando di correggere i propri difetti. Ed è così riuscito ad imporsi, soddisfacendo a volte maggiormente rispetto a serie supereroistiche più pubblicizzate ma meno riuscite. E adesso, dopo Inumani impazziti, teschi infuocati e androidi in rivolta, è giunto il turno degli alieni. Infatti dopo aver affrontato le vicende legate al Framework lo S.H.I.E.L.D viene inaspettatamente inviato nel futuro, dove la terrà è stata distrutta e i pochi rimasti vivono in schiavitù. La squadra dovrà affrontare varie sfide, ma riusciranno a tornare nel loro tempo. Sarà così che tenteranno di cambiare il corso degli eventi, per evitare che il loop temporale si ripeta e la fine del mondo avvenga ancora una volta. Reduce da una quarta stagione non proprio accolta dalla critica in maniera positiva (non da me, che l'ho promosso nonostante alcuni problemi, qui la mia recensione), la quinta ondata di episodi di Agents of S.H.I.E.L.D. è stata accompagnata da un certo scetticismo, ben giustificata poi dal basso grado di qualità di gran parte degli episodi proposti. L'ambientazione futuristica dei primissimi episodi serve solo da prologo per quello che poi è il fulcro narrativo dell'intera quinta stagione, il salvataggio della Terra dalla distruzione. Ma è purtroppo il modo con cui certi eventi vengono proposti allo spettatore che fa storcere il naso. I protagonisti, a mio avviso, vengono catapultati in futuro post-apocalittico introdotto narrativamente in maniera approssimativo, c'è bisogno, difatti, di seguire mezza stagione per riuscire ad unire tutti i puntini, e capirci qualcosa. La seconda parte della stagione fortunatamente (questa quinta stagione come detto si può dividere in due parti: quella ambientata nel futuro e quella nel presente, per impedire il futuro) sposta gli equilibri.

Tredici (2a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 06/03/2019 Qui - All'epoca ci furono molte discussioni, che continuano tuttora, sull'utilità o meno di una seconda stagione, anche perché la storia sembrava conclusa (dopotutto era stato trasposto tutto ciò che l'autore del romanzo aveva raccontato nella sua opera, quindi il compito della serie pareva essere ormai concluso), le cassette erano terminate, le storyline avevano raggiunto il loro culmine (Clay Jensen aveva svelato la realtà sul suicidio di Hannah, così i suoi genitori avevano intentato causa alla scuola e il suo violentatore, Bryce, sembrava destinato a fare i conti con la legge, insomma tutto lasciava presagire che la vita per gli altri sarebbe continuata senza troppi patemi), ma soprattutto il finale della prima stagione di Tredici (la serie televisiva statunitense basata sul romanzo 13 di Jay Asher) era meraviglioso, così come le tante domande le cui risposte venivano lasciate all'immaginazione dello spettatore. Brian Yorkey era infatti riuscito a realizzare una serie teen come non la si vedeva da anni, un gioiellino di recitazione e straordinariamente attuale. Vedendo però la seconda stagione (comunque prodotta complice l'enorme successo) ci si rende conto che una continuazione ha tutto il senso del mondo. Perché certo, forse non l'ha detto sempre nel modo esatto e non usando le tempistiche esatte, ma il prosieguo risulta nel complesso plausibile. In tal senso di nessuna utilità sarebbe invece una terza stagione (ahimè già in cantiere) perché tutto quello che poteva essere ancora svelato, quello che ancora non si era detto, viene definitivamente qui svelato e detto, lasciando praticamente zero margine. Non sarebbe un rischio incentrare un nuovo racconto senza la protagonista principale, senza il fulcro di tutto? Per me sì, infatti non sentivamo la necessità di un cliffhanger a fine di questa stagione, che anche per questo fatto perde mezzo voto, era meglio concludere e basta. In ogni caso sono passati cinque mesi dal suicidio di Hannah e Clay sembra aver voltato pagina, iniziando una relazione con Skye, vecchia amica d'infanzia. Sembra. La notizia che, dopo mesi in cui il patteggiamento appariva certo, i genitori di Hannah abbiano deciso di fare causa alla scuola, coglie impreparato il giovane Clay, che improvvisamente comincia a vedere la ragazza defunta dappertutto, iniziando anche delle lunghe e drammatiche conversazioni con lei. Il tutto mentre qualcuno mette nella sua cassetta delle foto scattate con una polaroid che mostrano Bryce e altri atleti della Liberty High intenti a violentare delle ragazze, rivelando un pozzo nero di misfatti che supera persino le violenze subite da Hannah e Jessica.

Das Boot (1a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 21/02/2019 Qui - Sarà che non ricordi bene il film da cui questa serie sembra l'ideale seguito (sono passati trentotto anni e non sapevo manco che sarebbe servito un ripasso), sarà che i nazisti li vedrei sempre morti (qui infatti il nazismo e il conflitto che ha sconquassato il mondo è visto dal punto di vista tedesco, personalmente non proprio così tanto interessante), sarà che non sopporti più (o almeno non sempre) il politicamente corretto (emblematica in tal senso la scelta di mettere forzatamente all'interno di una storia di spie e di guerra l'ennesima storia d'amore gay, anzi lesbo, senza nessun evidente motivo), sarà che avendo odiato Vicky Krieps ne Il filo nascosto non sopporti più la sua presenza, sarà che le serie di produzione Sky (a parte rari esempi) abbiano quasi sempre deluso, ma Das Boot, la serie televisiva franco-tedesca di guerra, sequel del film del 1981 U-Boot 96 di Wolfgang Petersen, ma ambientata un anno dopo gli eventi del film, basata sui romanzi Das Boot e Die Festung di Lothar-Günther Buchheim, andata in onda dal 4 gennaio 2019 su Sky Atlantic e fino a pochi giorni fa, non mi ha convinto, non mi è tanto piaciuta ed anzi, mi ha personalmente deluso. Questo nonostante va detto, la suddetta provenga dal territorio tedesco, patria ultimamente di discrete produzioni internazionali (lo è anche questa, almeno tecnicamente senza dubbio), e nonostante la suddetta aveva dalla sua una storia dalle apparenze tanto interessanti (in alcune parti per esempio davvero riuscito è il soggetto). Che i tempi fossero maturi per la Germania si era già capito nel 2018 grazie a Dark, opera coraggiosa per nulla intimidita dal confronto coi campioni americani, quindi forse le aspettative erano parecchio alte, e non vedendole esaudite abbia io avuto qualche problema, ed abbia più facilmente storto il naso. La serie infatti, che ci porta nel 1942, in piena Seconda Guerra Mondiale, concentrandosi sulla Resistenza francese e al contempo sulla durissima vita dell'equipaggio a bordo del sottomarino tedesco U-612, non era quella eccezionale storia che mi aspettavo, una storia di epiche battaglie, gloriose resistenze e spionaggio internazionale, però qui annacquata e privo di sufficiente mordente.

Escape at Dannemora (Miniserie)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 13/02/2019 Qui - L'evasione da un carcere è un tema che il cinema (e la tv, Prison Break ne è l'esempio) ha sempre amato, regalandoci lungo la sua storia gioielli da La grande fuga a Fuga da Alcatraz, da Un condannato a morte è fuggito a Papillon. Un tema perfetto anche per una miniserie tv, come dimostra l'esempio di Escape at Dannemora, produzione Showtime (creata da Brett Johnson e Michael Tolkin) che racconta una clamorosa storia vera risalente al 2015 che all'epoca ebbe una grande esposizione mediatica: la fuga dei detenuti Richard Matt e David Sweat dal Clinton Correctional Facility, nello stato di New York, con l'aiuto dell'impiegata Joyce "Tilly" Mitchell. Nei panni dei tre protagonisti troviamo rispettivamente Benicio del Toro, Patricia Arquette e Paul Dano, mentre in cabina di regia c'è Ben Stiller, alla sua prima incursione registica in una serie televisiva. Un cast di altissimo livello, insomma, per la serie andata in onda su Sky Atlantic dal 4 dicembre 2018 al 15 gennaio 2019, e che ricostruisce gli eventi con una precisione millimetrica, quasi documentaristica. La miniserie esplora infatti i giorni precedenti alla fuga, sondando il terreno per riuscire a raccontarci come quell'evasione memorabile sia stata possibile. Le cose sono davvero andate come racconta l'FBI? I retroscena della vicenda sono davvero così torbidi? Chi ha plagiato chi? Escape at Dannemora (show composto da otto puntate, in originale 7, ma in Italia l'ultimo episodio è stato scisso in due parti, di durata variabile) ce lo racconta pian piano, introducendo nel nostro spettro visivo i suoi protagonisti e incasellando fatti, pettegolezzi, ricostruzioni. Ci affascina subito Escape at Dannemora. Siamo ben disposti a sacrificare la nostra libertà per entrare in quel carcere affollato. Non è faticoso rinchiuderci in una cella e ascoltare con sospetto i discorsi dei detenuti. Ogni sussurro potrebbe significare altro e ogni sguardo nasconde favori, ricatti, amicizie e agguati. La storia che gli showrunner hanno messo in piedi è una vicenda di cui conosciamo già le premesse, alcuni conoscono anche il finale. L'unico elemento da scoprire e da immaginare è lo svolgimento, e che svolgimento.

Kidding - Il fantastico mondo di Mr. Pickles (1a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 07/02/2019 Qui - La serie tv Kidding - Il fantastico mondo di Mr. Pickles (Kidding), serie televisiva statunitense del 2018 creata da Dave Holstein (che ritorna dopo il sottovalutato Brink, cancellato dopo solo una stagione), segna il ritorno alla collaborazione di Jim Carrey e Michel Gondry dopo il fondamentale film del 2004 (il bellissimo Se mi lasci ti cancello). L'interprete di Ace Ventura (e di tanti altri piccoli cult) ha avuto un'infanzia decisamente difficile, ha vissuto con la famiglia in un camper date le ristrettezze economiche seguite al licenziamento del padre contabile, e di recente, nel 2015, ha dovuto affrontare anche il suicidio della compagna Cathriona White, ed è difficile non vederne traccia nella sua interpretazione di Mr. Pickles. Di contro, il regista di Versailles ha già dimostrato di saper rappresentare, mantenendosi coerente col suo immaginario fatto di découpage e artigianato, la malinconia e il dolore di una perdita, o almeno quasi sempre (si pensi al sopravalutato Mood Indigo: La schiuma dei giorni). E tuttavia nonostante sia una serie creata da un terzo, il segno di entrambi è ben presente, a partire dalla sigla diversa per ciascuna puntata che ripropone il meccanismo delle Instagram Stories del profilo del regista francese. Per il resto, l'altro pregio di Kidding (su Sky Atlantic da novembre a dicembre scorso) è quello di non essere lo show di Jim Carrey (anche se lui è perfettamente onnipresente), ma una vera e propria storia su una famiglia (disfunzionale come tante) che non è la nostra, ma nello stesso tempo lo è. E può esserlo perché l'attore canadese viene affiancato da signori attori come Catherine Keener e Frank Langella: loro sono i Piccirillo, nome di origine italiana il cui senso non può essere sfuggito al creatore. Il resto di Kidding è un misto di generi, tipici e molto simili alla stravagante formula di Showtime. Ma è utile sottolineare subito una cosa, il formato da poco meno di 30 minuti porterebbe subito a pensare a una commedia, illudendo lo spettatore nel migliore dei modi. Certo, non mancano nel corso degli episodi momenti divertenti, ma non saranno mai risate a cuor leggero, si tratterà perlopiù di sorrisi amari, velati da un'ombra di malinconia.

I delitti del BarLume (6a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/01/2019 Qui - L'aspettavo da tempo, aspettavo il ritorno de I delitti del BarLume (serie tv sempre ispirata ai romanzi di Marco Malvaldi), arrivata alla sua sesta stagione con due nuovi episodi (Il battesimo di Ampelio e Hasta pronto Viviani), per vedere se finalmente il vento fosse nuovamente tornato a soffiare a favore di questa produzione originale Sky, che con la regia di Roan Johnson ha sempre portato una ventata di aria innovativa e positiva nel panorama della produzione italiana. E invece purtroppo niente è cambiato, anzi, questa stagione conferma i problemi riscontrati nella scorsa serie di film, qui, e il suo progressivo rallentamento. Un rallentamento iniziato quando nella quinta stagione è mancata la presenza del protagonista Massimo Viviani, interpretato da Filippo Timi, che oltre a brillare per talento ha sempre tenuto le redini della storia in cui tutti i personaggi ruotavano attorno a lui, al suo Barlume e il suo dolce e delirante egocentrismo. Quando il protagonista decide di partire per l'Argentina per gestire l'attività di quello che ha poi scoperto essere suo padre, a Pineta ci sono stati molti cambiamenti che hanno portato l'aggiunta di nuovi personaggi come Giuseppe Battaglia, fratellastro di Massimo interpretato da Stefano Fresi e Paolo Pasquali assicuratore veneto interpretato da un irriconoscibile Corrado Guzzanti. Nonostante queste aggiunte di rilievo (insomma...), niente sembra riuscir a sostituire realmente il protagonista e la trama scricchiola soprattutto in questa sesta stagione. Nel primo episodio Massimo manda un video messaggio ai suoi amici del Quartetto Uretra capitanati da Alessandro Benvenuti come se fosse in ostaggio e chiedendo loro dei soldi per il riscatto. Nel secondo episodio tutti decidono insieme alla fidanzata argentina di Massimo di andare a liberarlo in Argentina e scoprire poi lì che il rapimento era una finzione per poter avere dei soldi in prestito e restituirli ad un gruppo di strozzini oltreoceano. Nel frattempo a Pineta il Commissario Fusco è a caccia di un fuggitivo che scopre poi essere collegato con Massimo e la scomparsa dei quattro vecchini.

Empire (4a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/01/2019 Qui - La si aspettava con grande attesa, almeno personalmente parlando (come evidenziato alla fine della terza, alla fine della sua/mia recensione, qui), la quarta stagione di Empire, la serie che, ambientata nel mondo glamour della black music resta ancora uno degli show più chiacchierati negli USA. Infatti il cliffhanger finale aveva portato in sé grandi cambiamenti (e introdotto nuovi personaggi), che avrebbero dovuto in linea teorica consegnarci una quarta stagione letteralmente esplosiva, cosa che in parte questa stagione è, almeno fino a quando risulta chiaro durante l'andare avanti negli episodi che i nuovi personaggi, e non parliamo solo di Demi Moore, entrata a far parte del cast principale dopo l'apparizione della figlia Rumer Willis nella scorsa stagione (un ingresso che ha per lei rappresentato come il ruolo televisivo più importante da quando interpretò General Hospital nei primi anni '80), ma anche del Premio Oscar Forest Whitaker, nel ruolo dello Zio Eddie, un carismatico musicista amico della famiglia Lyon, saranno e verranno solamente "usati" per creare zizzania all'interno di un serial che aveva già portato in dote dalla terza una rivale di grande imponenza, la perfida Diana Dubois interpretata da Phylicia Rashad (celebre mamma della famiglia più famosa d'America, I Robinson), che ovviamente, dopo tante dolorose ferite che crea all'interno di una famiglia non proprio "normale", verrà (troppo) prevedibilmente sconfitta.

Timeless (2a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/01/2019 Qui - Il finale della seconda stagione della serie Timeless (un po' come fu quello della prima, qui), è stato abbastanza sorprendente, almeno per chi di viaggi nel tempo non è grande appassionato. Perché altrimenti avrebbe già capito (come in questo caso) che il suddetto finale (senza rivelare alcunché) sia un qualcosa di già visto, un finale esattamente nella migliore delle tradizioni televisive a suon di colpi di scena e nella migliore delle tradizioni "paradossali" sui viaggi nel tempo, un finale che purtroppo, alla luce delle intenzioni del network di chiudere (nuovamente) la serie sembra quasi una beffa (perché il sopracitato finale ipoteca la necessità di una terza stagione) o un geniale tentativo di far cambiare (nuovamente) idea alla NBC. Il serial della coppia Eric Kripke e Shawn Ryan ha avuto infatti vita difficile fin dalla prima stagione, cancellata dalla rete americana ma poi rinnovata grazie alle insistenze dei fan. Ora si spera la stessa cosa, anche se in tal senso se mai si farà, che si faccia a patto che si ragioni nel dettaglio su come risolvere tutti i nodi. A tal proposito la serie lascia molti interrogativi, e come se non bastasse la divisione in dieci episodi nel complesso non è ben strutturata. Insomma dubbi che mettono in cattiva luce una serie, una stagione, che pur con i suoi difetti e paradossi, è in realtà un bel divertimento. Tratta difatti i viaggi temporali con la giusta dose di azione e divertimento, grazie al trio di protagonisti: la storica Lucy Preston (l'attrice Abigail Spencer), l'uomo d'azione Wyatt Logan (Matt Lanter) e il pilota della scialuppa temporale Rufus Carlin (Malcom Barrett).

Marte (2a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/01/2019 Qui - Sì è dovuti aspettare due anni, ma alla fine anche Marte, la serie tv di National Geographic Channel, ha avuto una seconda stagione per confermare quanto di buono aveva fatto nella prima stagione. Sì perché, andata in onda su Sky per 6 settimane dal 22 novembre scorso, sempre prodotta da Brian Grazer e Ron Howard, e sceneggiata da Dee Johnson (Nashville), questa atipica serie tv, conferma quanto di buono la prima aveva proposto, anche se per raggiungere l'obiettivo deve rinunciare in parte alla sua peculiarità. Lo fa crescendo, alla ricerca del modo migliore di diventare adulta. Soprattutto la serie tv deve decidere quale aspetto della sua duplice natura privilegiare: la parte di finzione o quella documentaristica. E saggiamente sceglie di non scegliere. Ciò che aveva fatto di Mars un ammirevole unicum era la capacità di portare avanti due discorsi in parallelo alternando e fondendo una storia fantascientifica ambientata su Marte in un futuro non remoto con gli sforzi che qui e ora si stanno compiendo per togliere il suffisso "fanta" all'aggettivo usato qui sopra. Stabilitisi ormai sul pianeta rosso (la nuova stagione non a caso viene ambientata a circa 9 anni dal primo sbarco umano su Marte), questo gioco di specchi non poteva essere portato avanti allo stesso modo. Infatti, il lavoro primario degli scienziati odierni è teso a realizzare il primo passo, mentre cosa fare dopo è un tema ancora poco approfondito. Entrando quindi nel regno nebuloso di futurologi più o meno credibili (ma quelli scelti dalla serie sono ovviamente i più quotati e più scientificamente affidabili). Per questo motivo, intelligentemente il parallelo diventa un altro. Non più cosa fare oggi per rendere possibile il domani. Ma piuttosto immaginare un domani dove sia possibile correggere gli sbagli prima che sia troppo tardi. Per fare poi di questa speranza un monito per un oggi dove gli errori potrebbero essere ormai irreparabili. Mars diventa allora un messaggio da un futuro di fantasia per un presente reale. Poteva far storcere il naso nella prima stagione di Mars l'assenza di una storia forte dal momento che il tema dello sbarco su Marte e della sua colonizzazione era dopotutto stato esplorato a lungo in prodotti precedenti. Non del tutto immotivate (ma comunque fuori centro) erano, quindi, le critiche pedanti di chi lamentava una certa insufficienza dell'aspetto più fiction della serie. Consapevoli di questa (più o meno perdonabile) pecca, gli autori decidono di ovviare scrivendo una sceneggiatura che non rinuncia alla sua missione educativa, ma al tempo stesso è capace di reggersi in maniera autonoma.

Deutschland 86 (Miniserie)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 16/01/2019 Qui - La vita ai tempi della guerra fredda è ancora al centro di Deutschland 86, secondo capitolo di un'ideale trilogia (che non vedo l'ora vada a termine) iniziata con Deutschland 83, una delle serie rivelazione del 2015, una serie purtroppo snobbata, di cui rappresenta appunto il sequel. È una storia di spionaggio in cui le trame dei servizi segreti e le intime vicende personali dei personaggi convergono restituendo l'affresco di un'epoca. L'epoca di massima tensione raggiunto negli anni Ottanta tra Unione Sovietica e Stati Uniti, che ha portato successivamente alla caduta dell'URSS e del muro di Berlino. Tutto ciò viene però visto (come saprà chi l'ha già visto, se no il consiglio è di recuperare tutta la prima stagione) dalla prospettiva delle due Germanie ed in particolare attraverso il personaggio di Martin Rauch (interpretato da un nuovamente bravo Jonas Nay), un ventiquattrenne della Germania Est, che da sergente maggiore delle truppe di Frontiera viene catapultato nell'altro lato della Germania per diventare una spia. E poiché sono nuovamente tornati gli intrighi della Guerra Fredda tra Germania Ovest ed Est pure, proprio lui non poteva mancare in questa seconda stagione della serie televisiva tedesco-statunitense creata da Anna Winger e Jörg Winger, e diretta da Florian Cossen, una seconda stagione ancora più avvincente e coinvolgente (ma nel complesso non migliore) del primo riuscitissimo capitolo della serie TV tedesca che ha dato il là alla rinascita della TV in Germania (Babylon Berlin un meraviglioso esempio di questa rinascita). Infatti lui c'è, lui che alla fine del suo percorso da spia della Stasi, percorso che lo ha poi costretto alla fuga alla fine di Deutschland 83 (Kolibrì, il suo nome di battaglia, ed egli stesso era ricercato da mezzo mondo, il mondo segreto delle spie), lui che spera, riprendendo a lavorare per i servizi segreti, e così continuare a finanziare il progetto del partito socialista tedesco, tornare in patria, ma lo ritroviamo però con una nuova prospettiva e diversi "incarichi" da svolgere.

House of cards (6a stagione)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 04/01/2019 Qui - Come ben tutti sanno la produzione della sesta ed ultima stagione di House of Cards è stata dilaniata dallo scandalo sessuale di Kevin Spacey. Il protagonista maschile principale è stato infatti fatto fuori dalla serie, che però per questo perde di carisma ed è vittima della produzione, essendo stata costretta a riscrivere in fretta e furia tutta la storia. Difatti, la produzione era già in corso quando lo scandalo è scoppiato, pertanto tutta la storyline è stata modificata per eliminare Frank Underwood dalla storia. Tale cambiamento ha portato ad un accentramento della storia attorno a Claire, protagonista femminile che si ritrova padrona assoluta della scena. Purtroppo però, questo repentino ri-modellamento, non ha portato nessun beneficiò e perciò la sesta ed ultima stagione si rivela la più brutta dell'intera serie. Si perché tutti i timori che avevano accompagnato la produzione (ovvero se sarebbe riuscita a sopravvivere senza la sua punta di diamante) si sono rivelati tutti. Non è bastata neanche Robin Wright infatti a tenere in piedi la baracca, nonostante si era sperato che lei ci riuscisse, perché le capacità le ha e le ha sempre avute, ma nulla ha potuto fare senza una base, senza una sceneggiatura all'altezza. Ognuno dei coinvolti nella produzione ce l'ha messa tutta per restituire ai fan qualcosa che nel bene o nel male rendesse giustizia alla serie, ma risulta evidente quanto quest'impresa sia stata un orbitare attorno al buco nero lasciato da Spacey senza precipitarci dentro. Sceneggiatori e registi hanno dovuto affrontare una sfida senza precedenti e di questo bisogna rendergli atto, ma non puoi fare una stagione di House of Cards senza Frank e il tentativo di sminuire l'importanza del personaggio denigrandolo in più passaggi o standoci a debita distanza non fanno altro che fomentare l'opinione di coloro che vedono nella sua assenza il punto debole della stagione. Perché certo, la scelta di Netflix di escludere Kevin Spacey è stata encomiabile, ma gli si è rivoltata contro, visto il pessimo prodotto confezionato. Sarebbe stato più idoneo cancellare l'intero show e finire con il colpo finale della quinta stagione (qui). Sarebbe stato un finale migliore rispetto a quello presentato in quest'ultima. Un finale purtroppo rivelatosi amaro. Infatti, della forza e dell'impatto delle prime stagioni (coadiuvate anche dalla mano di David Fincher) non è rimasta nessuna traccia. Ciò che è rimasto è l'affetto per i personaggi principali che sono gravitati nella trama dei coniugi Underwood, tutto il resto è però noia.

Hallowgeek 2018: La paura fa novanta VIII

Post pubblicato su Pietro Saba World il 31/10/2018 Qui - Avevo già in programma anche quest'anno di proporre la recensione di un film adatto e da consigliare per Halloween, e il programma sarà rispettato, anche se con un po' di ritardo e con un orario differente dalla consueta pubblicazione, ovvero nel primo pomeriggio di oggi, perché prima devo, con questo post a tema, rispondere alla convocazione della Geek League, combriccola di blogger che ha pensato bene di proporre per questa speciale giornata una rassegna di episodi speciali di una serie (animata e non) a tema Halloween da esaminare. E così, sapendo bene che, se c'è una serie in cui è facile pescare a piene mani nel suddetto tema, quella è I Simpson, ho scelto di prendere ad esamina una puntata dei classici annuali di questa straordinaria serie animata, annuali Halloween Special che in America vanno tanto di moda. E così, memore di aver già nominato la puntata speciale de La paura fa novanta VIII del 1997 in occasione della recensione nella Notte Horror del film La Mosca, ho scelto proprio quella per rispondere alla chiamata. Se infatti conoscete almeno un pochino il mondo simpsoniano, sapete che uno no degli elementi che compongono il grandioso successo degli speciali di Halloween de "I Simpson", è l'intelligente uso di citazioni di grandi film. A tal proposito se volete scoprire di più, anche sulla puntata in questione della nona stagione, e conoscere tutte le citazioni od informazioni, questo è il link su cui cliccare, questo è il blog su cui bazzicare, quello di Marco Grande Arbitro di Gioco Magazzino e la sua Simpsonspedia (io mi limiterò a commentare solamente ogni intermezzo). Come dicevo, nei tre intermezzi la più grossa citazione è al bellissimo film "La Mosca", di David Cronenberg, ma gli altri non sono da meno, e rappresentano bene l'anima di questi special, e quindi ecco cosa ne penso della quarta puntata della nona stagione.

giovedì 6 giugno 2019

Bellezze cinematografiche/serialtelevisive edizione 2018

Selezione pubblicata su Pietro Saba World il 31/12/2018 Qui - Non è stata la più bella Lois Lane di sempre, eppure saputo della morte della prima protagonista, del primo film di Superman, che manco a farlo apposta quest'anno ha compiuto 40 anni, non ho potuto prendere in considerazione lei, Margot Kidder (morta all'età di 69 anni nel maggio scorso), come madrina del terzo Saba Beauty Awards. Premio che quest'anno, al contrario dei precedenti (qui e qui, qua e qua), mette insieme sia le bellezze cinematografiche che serialtelevisive. Premio che appunto premia le più belle donne apparse in tutte le pellicole e serie tv viste durante l'anno. In tal senso, poiché è ovvio che la scelta può essere stata "condizionata" dalle scene particolarmente hot di alcune di queste protagoniste, raccomando ai lettori che se le foto di seni nudi o altro vi infastidiscono e le trovate disdicevoli, di ignorare questo post. Agli altri invece, che apprezzeranno il suddetto post, di non essere volgari e di non esagerare nei commenti. Comunque prima di cominciare una piccola ed importante nota, per evitare di vedere sempre le stesse protagoniste, alcune non ci saranno, anche se ne avrebbero avuto tutto il diritto. Infatti con sommo dispiacere devo rinunciare alla Wonder Woman ed La spia della porta accanto Gal Gadot, ad Abbey Lee, protagonista ahimè de La torre nera, a Matilde Gioli (La casa di famiglia), alla bella Teresa Palmer, quest'anno vista ben tre volte in tre film tutti diversi tra loro, alla giunonica Gemma Arterton di Byzantium, alla spregiudicata prima (in L'amore oltre la guerra) e carinissima poi (in Baby Driver) Lily James, alla meravigliosa Ana de Armas di Blade Runner 2049, all'intrigante Natalia de Molina vista in Kiki & i segreti del sesso, alla Dea Eva Green, tanto ammirata in Perfect Sense, alla libertina Bella Heathcote di Professor Marston and the Wonder Women, ed infine alla sensuale Paz Vega vista nella serie tv The OA.

Le migliori attrici e i migliori attori, più le sigle e colonne sonore, delle serie viste nel 2018

Classifiche pubblicate su Pietro Saba World il 29/12/2018 Qui - Nella classifica finale del 2016 divisi i premi in due tronconi, uno per gli attori e le attrici (qui) ed uno per le sigle e le colonne sonori (qui), addirittura tre l'anno scorso (qui, quo e qua), quest'anno però data la riduzione di posti, ho deciso di farla in unica sede. Infatti, per non tediare troppo la mia psiche, perché davvero complicato è sempre scegliere chi è stato e chi sono i/le migliori/e, ho ristretto il tutto a pochi intimi. Perciò ecco immediatamente chi essi sono.

I MIGLIORI ATTORI
7. Ex aequo per un duttile James Franco, sia per la prima che per la seconda stagione di The Deuce, per un appassionante Lennie James nella prima di Save Me, per la mirabolante coppia d'assi Anthony Hopkins e Ed Harris che, come per la prima di Westworld e adesso la seconda, offrono nuovamente una prova di alto livello, e per la coppia Paul Giamatti e Damian Lewis che, per la terza volta consecutiva di tante altrettante stagioni di Billions, si confermano

La Top 20 delle serie viste nel 2018

Classifica pubblicata su Pietro Saba World il 28/12/2018 Qui - Al contrario di quello che è successo con i film, non è avvenuto con le serie, ovvero il livello è rimasto inalterato, tuttavia pochi veri scossoni quest'anno, a parte ovviamente le prime posizioni. Infatti quest'anno 20 serie (21 furono l'anno scorso, qui) entrano in classifica, tra questi ben 5 fanno il loro ritorno con le stagioni successive e curiosità, due serie sono in classifica con due stagioni diverse. In tal senso quest'anno ho visto 48 serie e 51 stagioni. Insomma tanta roba, ma ecco quali sono le serie (la recensione la trovate cliccando sopra le immagini) che mi sono piaciute di più, quelle che consiglio a tutti di vedere:

20. Serie drammatica intelligente, emozionante, originale, di livello e quindi riuscita, ma non perfetta, perché a tratti è confusa e piena di sbavature. (7/10)
19. Serie non originale ma avvincente ed appassionante. (7/10)